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La leggera pioggerella inizia a cadere sempre più fitta, fino a trasformarsi in un rovescio. Il rumore delle gocce che sbattono sui rifiuti abbandonati sui sassi tra i binari si fa sempre più forte, fino a diventare l'unica cosa che spezza il silenzio tra me e Mirah. Non ho idea di quel che possa servire come base per fare conversazione, è come se avessimo finito di che parlare, ma al momento basta la reciproca compagnia.

Qualcuno sale sul marciapiede di fronte, cercando di ripararsi il prima possibile dalla pioggia che dal nulla ha preso intensità. Mirah si appoggia alla mia spalla, socchiudendo gli occhi.

«Perché odiano la pioggia?»

«Penso perché i vestiti bagnati sulla pelle diano loro fastidio» le rispondo. È la prima cosa che mi è venuta in mente, l'unica che è vera per me. Non so per loro, non ho fatto nemmeno in tempo a vedere chi fossero.

«A me piace».

«Non tutti sono uguali» le rispondo.

«Avrei scommesso il contrario guardandomi intorno».

Devo darle ragione: a primo impatto e soprattutto da dietro è impossibile distinguere una persona dall'altra. È solo grazie al tempo che abbiamo trascorso qui che riesco ad associare un volto a un nome, per il resto è come se fossimo un centinaio di copie imperfette.

Serro le labbra: inizia a diventare difficile risponderle negli ultimi tempi. Riesce sempre ad avere l'ultima parola - sta imparando troppo da Riya e Talira per i miei gusti.

Sospiro, non so come far continuare la conversazione che muore lì, come immaginavo. Non passa troppo tempo prima che Mirah si alzi, si sposti dalla panchina e allunghi le braccia oltre la testa.

«Vado a cercare Talira, ha detto che devo imparare qualcosa per i turni di guardia».

«Non andare a Rifredi da sola, però».

«Ho detto Talira. Non Riya» risponde Mirah, mettendosi le mani sui fianchi e alzando il mento in un gesto di sfida. «E non sono una bambina, puoi fidarti».

Mi alzo scuotendo la testa. «Per me lo sarai sempre» le dico stringendola in un abbraccio da cui non tenta di scappare via. Ormai lo sa, non reagisce più. «Rimarrai sempre la mia sorellina».

Mi fa il verso non appena la lascio andare. Saluta con un gesto della mano, poi scappa via. Torno a sedermi, seguendola con gli occhi fin almeno dove posso; sospiro, tornando a guardare il pavimento grigio: la linea gialla non è più visibile, cancellata dal tempo, così come i numeri dei binari - ma quelli si ricordano, nessuno li guardava.

«Non direi proprio che è una bambina».

Sospiro di nuovo, voltandomi verso destra: non so da quanto tempo fosse qui, ma immagino che Rafel abbia seguito tutta la conversazione, almeno l'ultimo pezzo. Si avvina senza dire nulla, sedendosi sulla panchina, ma con la schiena opposta alla mia. Scivolo verso la colonna, appoggiando la spalla contro quella per guardarlo senza rompermi il collo.

«Che tempo di merda, eh?» mormora alzando gli occhi alla striscia di cielo grigio che si intravede tra il tetto delle pensiline tra i binari nove e dieci.

«Penso che a volte sia stato peggio... almeno non fa freddo».

So già che la sta prendendo larga, ma non voglio forzarlo a parlare, so com'è fatto e prima o poi arriverà al punto. Si piega in avanti, passandosi una mano tra quei pochi capelli bianchi che gli rimangono in testa. Lui è uno di quelli che preferisce tagliarli, in modo da avere meno problemi possibile.

«Senti, Aeron» dice dopo un altro momento di silenzio. «L'ultima volta avete riportato indietro dei documenti».

Arriccio le labbra. «Sì, ne ho sentito parlare».

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