VI

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Capitolo VI

 Non c'è speranza senza paura né paura senza speranza.

[Benedetto Spinoza]

Si era lasciata vincere da un criminale.
Per un istante aveva davvero ritenuto possibile che l’unica via percorribile per dimenticare tutti i problemi fosse stare con Luke, vivere di Luke.
Per quel breve istante aveva sentito che il mondo tornava a girare nel senso giusto.
Che la primavera precedeva l’estate.
E che la vita era come una tela inizialmente immacolata e in seguito riempita da vivaci e brillanti colori.
Per un insignificante battito di ciglia aveva rivisto la luce che emana la beatitudine.
Ma solo i santi possono vivere nella grazia divina.
E dopo tutti i peccati commessi, Camille, di certo non ne faceva parte né la meritava.

 
Decise di intrufolarsi nella villa degli Irwin due giorni dopo il ritrovamento del corpo martoriato di Ashton.
Dalla prima volta che vi era stata Edward aveva aumentato ampiamente le misure di sicurezza, e ogni angolo dello sterminato giardino pullulava di uomini armati che si aggiravano attenti ad ogni minimo spostamento d’aria.
Ma ci voleva ben altro per fermarla.
Aveva deciso di evitare di dare spettacolo come quella volta che aveva abbattuto una ventina di guardie, dunque scelse di limitarsi a raggirarle ed accedere da una finestrella bassa e incavata che dava alle cucine.
Percorse i corridoi appiattendosi contro alle pareti, e scivolando sinuosa lungo i muri che odoravano ancora di vernice fresca.
Il giorno antecedente l’aveva occupato a studiare la piantina della villa per poterla così girare alla perfezione, e ora che aveva memorizzato ogni piano poteva muoversi come se la percorresse di consuetudine.
Dunque salì le scale che conducevano al primo piano, sempre attenta a non commettere passi falsi e in allerta per ogni minimo suono che percepiva provenire dall’esterno.
Si fermò quando scorse la prima telecamera. Era indecisa se metterla fuori uso o scegliere un altro corridoio da percorrere.
Decise di cambiare direzione, e tornando sui suoi passi prese un altro passaggio, ma pure in questo si imbatté in una telecamera.
Sbuffò spazientita, e senza riflettere ulteriormente lanciò un coltello che teneva relegato in vita, centrando in pieno il led.
A quel punto aveva una scarsa manciata di minuti prima che i supervisori scendessero a controllare e si accorgessero che qualcuno aveva fatto irruzione.
Non aveva tempo da perdere.
Iniziò a correre, aprendo ogni porta che incontrava lungo il cammino, e trovando solo camere per gli ospiti, biblioteche arricchite da lunghe generazioni e salottini privati.
Salì un’altra rampa di scale e attraversò il nuovo corridoio alla medesima maniera, non notando nessuna stanza che faceva al caso suo.
Nessuna stanza che corrispondeva anche lontanamente a quella di Edward Irwin.
Si fermò ansante nel bel mezzo dell’ennesimo corridoio, uguale persino nelle decorazioni ai precedenti. Quella villa era un fottuto labirinto.
Spazientita chiuse gli occhi e calciò con rabbia il muro a cui era appoggiata.
E in quell’istante sentì il rumore di uno scricchiolio.
Una porta interna si spalancò cigolando, rivelando un varco ovale scolpito nella parete.
Camille rimase per un istante immobile, poi per non perdere altri secondi preziosi vi entrò.
Il buio del piccolo tunnel costruito nella pietra umidiccia lasciò ben presto il posto alla luce accecante di una stanza che dava su una splendida vista del giardino.
Era finemente lavorata in ogni minimo dettaglio, a partire dai pomelli in oro e rubini dei cassetti, e ricca di arazzi orientali: per esclusione non poteva che trattarsi dello studio di Edward Irwin.
Camille si mise immediatamente all’opera, cercando frenetica ed eccitata tra le scartoffie che pullulavano sulla cattedra, ma trovando solo stupidi documenti su affari riguardanti l’esportazione di alcolici.
Frugò allora tra i libri ammucchiati in una piccola biblioteca, gettandoli per terra in preda allo sconforto, ma dell’agenda che aveva citato Ashton non vi era traccia.
Che le avesse mentito?
“Maledizione…” biascicò, continuando a setacciare disperata tra i cassetti e trovando sempre fogli inutili o porta-tabacco.
Non poteva indagare a caso, non l’avrebbe condotta da nessuna parte.
Come se non bastasse, risuonò l’allarme per l’edificio: dovevano essersi accorti della telecamera.
Chiuse con un tonfo secco il cassetto che stava perquisendo e si gettò verso il tunnel che aveva attraversato pochi minuti prima. Si ritrovò nuovamente nell’immenso corridoio e corse a perdifiato non curandosi più del rumore che i suoi stessi passi producevano sul parquet. Scese rapida una rampa di scale e si ritrovò dinnanzi a tre grossi uomini armati. Indossavano giubbotti scuri antiproiettile e brandivano minacciosi dei fucili che per l’adrenalina e la foga non riuscì ad identificare.
Camille colpì il primo con un gancio tale da rompergli la mascella, e non appena cadde al suolo gli fu sopra per tagliargli la gola con un gesto secco. Il sangue le schizzò sul viso e lo tolse infastidita con l’avambraccio, voltandosi fulminea per fronteggiare gli altri due.
 Agì con destrezza e velocità, puntando tutto sull’effetto sorpresa. Gli uomini infatti non fecero in tempo a reagire che erano già sgozzati e riversi al suolo, circondati da una pozza rosso cremisi che si espandeva sempre più lordando il bel parquet.
Li aveva uccisi senza troppe cerimonie.
 Aveva le ore seguenti da passare a rimuginare sui  rimpianti e i ripensamenti che l’avrebbero soffocata.
Una cosa però le era ben chiara: se quel corridoio era controllato doveva essere importante, o doveva trovarsi qualcuno di importante.
E Camille sapeva fin troppo bene di chi si trattasse.
Trafisse con i suoi amati pugnali altre due guardie che controllavano una porta più massiccia rispetto le altre, sorprendendole alle spalle, ed entrò frenetica richiudendola a chiave dietro di se.
La stanza era immersa nella soffusa penombra, e la luce lunare filtrava dalla finestra leggermente alzata per permettere al venticello di rinfrescare l’abitacolo.
Non appena vi mise piede, Camille avvertì il forte profumo di Ashton invaderle le narici.
Quell’odore che ora ricollegava al sangue dei caduti e al dilaniante dolore. Quell’odore amaro ed aspro che solo lui possedeva.
Estrasse la pistola dalla federa e si avvicinò lentamente al letto, per non farsi udire.
Ma Ashton spalancò gli occhi.
Aveva dei sensi davvero acuti e sviluppati per percepirla nonostante l’infermità.
“Prova ad urlare e sei morto” sibilò solamente la giovane, arrestandosi al bordo del giaciglio.
La mano stringeva saldamente l’impugnatura della pistola ed era pronta a scattare per premere il grilletto.
Non era mai stata tanto minacciosa e desiderosa di esserlo.
Voleva terrorizzarlo, renderlo vulnerabile. Non sapeva spiegare il motivo di tutto il rancore che covava nei suoi confronti, lui personalmente non l’aveva neanche mai sfiorata. Nonostante girassero voci parecchio inquietanti sul suo conto, Camille solitamente non era il tipo che si faceva vincere dai pregiudizi. Ma lui appariva sempre così sicuro di se, così altero e fiero anche nella sofferenza; e ciò non faceva altro che accrescere l’odio che provava verso l’intera famiglia Irwin.
“Chi si rivede. Non ti è bastato avermi quasi ucciso l’altra sera?” domandò retorico, facendo leva coi gomiti per sollevarsi e gemendo sommessamente pochi istanti dopo per lo sforzo “Oh, forse vuoi portare a termine il lavoro. Avanti, sono qua. Non ti fermerò.” concluse, puntando il suo sguardo distaccato nel suo.
Camille strinse con maggiore forza la pistola, fino a sentire quasi i polpastrelli scoppiare.
Ashton aveva il potere di spiazzarla, di lasciarla inerme e interdetta. Era imprevedibile, pericoloso e ammaliante nella sua durezza.
Non provava nessun rimorso, nessun rancore.
E Camille cominciava a capire perché fosse impeccabile nell’ammazzare gente.
La macchina da guerra perfetta.
La macchina umana.
“Voglio solo lanciarti un monito, Ashton Irwin. Non mi basta più scriverlo sui muri di questo castello. Come vedi è fin troppo facile entrarvi, per me” le sue labbra pronunciarono le parole che si era preparata appositamente per quell’incontro “Vedrai il tuo mondo cadere, pezzo per pezzo. Non rimarrà nulla della famiglia Irwin. E tu, tu stesso sarai la causa della vostra rovina.”
Senza aggiungere altro prese la rincorsa e si gettò contro la vetrata, infrangendola in milioni di pezzi.
Ashton si alzò a fatica dal letto reggendosi malamente in piedi, e zoppicò fino alla finestra. Si sporse verso il giardino, cercando la figura della donna con lo sguardo.
Ma era ancora una volta scomparsa.
 
 

Malavita II Luke HemmingsDove le storie prendono vita. Scoprilo ora