Capitolo uno.

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New York, Cafe Grumpy, 6 pm.

Quello era ciò che più amavo di New York.

Sedermi ad un tavolo del mio bar preferito, lungo la ventesima strada, e sorseggiare il mio caffè espresso mentre rileggevo il mio romanzo preferito. Ah, Jane Austen. Stare in sua compagnia, o meglio, dei suoi libri, era la cosa che amavo di più.

Ero fermamente convinta riuscisse a capirmi più di quanto facessero le persone.

Anche se il mio sguardo era attentamente posato sul libro, riuscivo comunque a captare cosa stesse succedendo attorno a me. Una famiglia era appena entrata nel locale semi deserto, una ragazza che avrà avuto più o meno la mia età tirava per mano suo fratello minore, che rideva di gusto. Andarono a sedersi ad un tavolo in fondo al locale, da dove i loro genitori stavano guardando la scena divertiti, lui con il braccio sulle spalle di lei, lei con uno sguardo adulante, pieno d’amore.

Erano una famiglia bellissima.

Sorrisi amaramente, mordicchiandomi l’interno della guancia. Avrei dato di tutto per una famiglia del genere, dove l’amore è l’unica cosa che ti viene insegnata. Avrei dato di tutto per una famiglia diversa dalla mia. Sospirai, distogliendo lo sguardo da quel quadretto famigliare. Ero gelosa, lo ammetto.

“Qualcosa non va da quelle parti?”

Sobbalzai leggermente quando qualcuno richiamò la mia attenzione. Non era una voce che conoscevo, eppure il suono era estremamente elegante. Mi girai incuriosita, trovando un ragazzo sorridente farmi un cenno con il capo dal bancone del bar.

Era seduto su uno di quegli alti sgabelli di legno, girato con il busto verso di me, con una mano tracciava il contorno del bicchierino posato sul bancone, con l’altra mi fece un timido cenno a mo’ di saluto.

“Uhm, no. Tutto bene.” Risposi, sorridendogli. Il mio viso doveva aver assunto un’espressione particolare se quello sconosciuto si era accorto che c’era qualcosa che non andava.

“Sono solo stanca, un po’ di jet lag.” Mentii.

A dire il vero non sapevo cosa mi avesse spinto a dargli una spiegazione. Era solamente un ragazzo di New York seduto al bancone di un bar. Eppure qualcosa in lui mi incuriosiva tremendamente. Non solo perché era un ragazzo oggettivamente attraente, c’era qualcosa nella sua voce e nel suo modo di fare che in qualche modo non mi permetteva di staccargli gli occhi di dosso.

“Oh.” Rispose, arricciando un sorriso di apprensione sul viso. “Da dove torni?” Chiese. Ora il suo busto si girò completamente verso di me, e le mani abbandonarono il bicchierino sul bancone. Dal suo comportamento sembrava veramente interessato a me. O forse era solamente una mia impressione.

Già, probabilmente stava solo cercando un modo per ammazzare il tempo.

“Europa.” Risposi. “Islanda.” Aggiunsi poi, facendo una linguetta sulla pagina del libro e chiudendolo.

“Oh, ho visto le cascate di Gullfoss l’anno scorso, prima di andare ad Amsterdam. Le vallate di Haukadalur sono stupende.”

Mi sorrise e sul suo viso si formarono due fossette che trovai teneramente adorabili. Da come parlava sembrava uno che viaggiava parecchio. Mi ritrovai a provare ancora più curiosità nel parlarci.

“E-e tu se di queste parti?” Chiesi, tremendamente in imbarazzo.

Non ero sicura di dover fare conversazione con lui, ma mi sembrava cortese dato che era stato lui a rivolgermi la parola per primo. A quella domanda esitò un secondo, il che mi fece sentire ancor più in imbarazzo, ma prese quasi subito parola.

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