Capitolo VIII

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Nipias non avrebbe saputo dire quante ore era rimasta aggrappata al corpo di Deianna; aveva le gambe intorpidite, le dita rigide e il petto straziato da lancinanti fitte di dolore

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Nipias non avrebbe saputo dire quante ore era rimasta aggrappata al corpo di Deianna; aveva le gambe intorpidite, le dita rigide e il petto straziato da lancinanti fitte di dolore. La pelle del viso, irritata dalle lacrime, pizzicava sotto l'aria fredda della notte.
Tuttavia nessuno dei suoi amici era riuscito a dissuaderla dal rimanere ostinatamente abbracciata alla vecchia che l'aveva cresciuta, ora adagiata in mezzo ai tredici ribelli che avevano perso la vita nello scontro: la macabra fila di cadaveri, a malapena illuminata dalle braci dei focolari, segnava il sentiero che portava al loro accampamento.
Osservò mestamente i lineamenti della donna, distorti in un'espressione di puro orrore: non erano neanche stati in grado di dirle chi, tra i Piceni e i Romani, le avesse sferrato il colpo fatale, un taglio netto che le aveva squarciato il ventre.
"È colpa mia!" si disse, sgomenta, accogliendo il dolore come giusta punizione per la sua sconsideratezza. "Non avrei dovuto mai trascinarti in tutto questo..."

La ragazza si rannicchiò sul terreno mentre il gelo notturno le penetrava fin nelle ossa e alzò gli occhi verso i corpi dei Romani appesi ai rami degli alberi: era rimasta talmente devastata dalla morte di Deianna che quasi non aveva fatto caso a quei poveracci; i suoi compagni, invece, avevano sfogato la loro ira e frustrazione sui resti dei loro nemici.
Ad un tratto fu colta da un presentimento agghiacciante e raccolta una fiaccola dal fuoco più vicino si inoltrò tra gli impiccati, tentando di individuare al buio i loro volti sfregiati:
"Non è tra di loro" si disse, mentre il cuore le batteva così forte da mozzarle il respiro. "Non può essere tra di loro, Raetius me l'avrebbe detto!"

Ma al ricordo del ghigno feroce con cui l'amico aveva riportato quelle spoglie al campo, Nipias si sentì sopraffare dalla nausea.
I cadaveri dondolavano pigramente nell'oscurità, simili a giganteschi corvi, e il cigolio delle corde strette intorno alle loro gole sussurrava presagi di morte; pareva che la osservassero con le loro orbite vuote e insanguinate che spiccavano sulla pelle gonfia, grigia e putrescente: più volte la ragazza si voltò di scatto, convinta di aver visto una di quelle mani scarnificate tendersi verso di lei.
Era ormai scossa da un tremitio incontenibile che minacciava di farle cadere di mano la torcia quando si imbatté in dei lineamenti familiari sotto i rami frondosi di una quercia.

La figura magra e allampanata di Ennio risultava grottesca, sospesa com'era a diversi piedi da terra, con il collo torto in una maniera innaturale. Ricordava bene gli occhi che sprizzavano curiosità ed allegria, occhi di cui si era fidata d'istinto quando la sua vita era appesa a un filo: ora fissava sgomenta le cavità scure, prive di qualsiasi traccia d'umanità.
Sul corpo nudo e pallido la ferita mortale al petto spiccava come un crudele fiore carminio.
Nipias lasciò scorrere lo sguardo su quelle membra inanimate, in preda a sentimenti a cui non sapeva dare un nome, finché non arrivò all'inguine e fu costretta a distogliere lo sguardo.
"L'hanno castrato!"

La nausea le salì in gola e lei si piegò in due, scossa dai singhiozzi e dai conati di vomito, vagamente consapevole dei lamenti sconnessi che le sfuggivano dalle labbra. Quando infine riuscì a riguadagnare il controllo del suo corpo scoprì che anche il dolore e il raccapriccio l'avevano abbandonata, lasciandola stordita.
"Un guscio vuoto, ecco ciò che sono!"

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