Capitolo 3

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Lo scherzetto che avevo fatto alla mia ormai ex- guardia non doveva essere piaciuto affatto alle alte sfere responsabili della mia prigionia, in quanto gli esperimenti si fecero sempre piú dolorosi, tanto che a volte il dolore persisteva ininterrottamente anche per diverse ore. Ciononostante il mio fisico non sembrava minimamente scalfito da quelle sperimentazioni, in quanto le ferite che mi venivano inferte si rimarginavano tutte in pochi minuti.
Parte di me ormai era completamente sorda di fronte al dolore fisico e psicologico, ma nonostante questo avevo ancora abbastanza forza di volontà per non spezzarmi. Non ci sarebbero riusciti, continuavano a ripetermi.
Le guardie continuavano a susseguirsi, e ognuna faceva sempre la stessa fine. Che fosse un uomo o una donna, ormai riuscivo a scavare facilmente nelle loro anime e trovare le loro pulsioni piú malsane, per poi sorprenderli quando ormai erano senza forze.
Ma non mi uccidevano. Dopotutto ero la parte piú preziosa del laboratorio, come unico Glitch esistente nel distretto giapponese a non aver contratto malattie genetiche rare e non, di cui quasi tutti i miei "simili" sono affetti. È ironico: siamo praticamente immuni a qualsiasi malattia, ma ciononostante manifestiamo grande sensibilitá nei confronti di malattie cromosomiche oppure dell'HIV. È ironico anche il fatto che queste cose le sappia sin da quando ero bambino, come se fossero la norma per ogni individuo del Room: 0.

Mi raccomando, ragazzi. Questi individui sono pericolosi. È per questo che vengono isolati, in modo che non possano fare del male a nessuno. Ma non preoccupatevi, non temete alcun pericolo.

Neanche mi ricordo la sua faccia, ma la mia maestra dell'asilo aveva dei lunghi capelli biondi, che ogni tanto mi divertivo a tirare.
E poi c'eri tu, che mi sussurravi, tutto tremante, di smetterla.

" Bene ragazzi, oggi dovrete fare dei test fisici per aggiornare il database del Room: 0, quindi mi raccomando: fate i bravi e date il massimo! "
Sorrisi sotto i baffi. Adoravo fare prove fisiche, in quanto nessuno nel resto della classe poteva battermi in quanto a doti atletiche. Avevo solo quattro anni, ma sapevo che la gran parte degli adulti mi considerava giá un importante tassello di quello che sarebbe stato lo scenario futuro del mio distretto. Mia madre mi elogiava, come anche le maestre e il mio allenatore. Ero un bambino amato e rispettato dagli adulti, ma che veniva temuto dalla maggior parte dei bambini per il mio comportamento e la mia nomea di testa calda. Mi girai verso di te, e potei constatare quasi con sollievo che stavi tremando come una foglia. Sapevo benissimo che col tuo fisico non avresti passato memmeno i parametri standard, venendo classificato come individuo di classe inferiore a me.
Nulla mi poteva rendere piú orgoglioso di me stesso.
Dopo varie prove, dalla corsa all'arrampicata, mi asciugai il sudore dalla fronte, sicuro di aver preso i record della classe su tutte le specialità. Andai negli spogliatoi, tutto contento. Gli altri bambini mi guardavano chi con disappunto, chi con invidia, ma li liquidavo con una linguaccia e occhiate torve. Rimasi in spogliatoio un pó piú degli altri per sciacquarmi la faccia, e solo quando chiusi il rubinetto sentii che da uno dei bagni provenivano dei piccoli sospiri e dei singhiozzi soffocati. Mi avvicinai e, invaghito dalla curiositá, aprii la porta di scatto.
Eri tu, con il corpo raggomitolato a terra, le gambe raccolte al petto, la schiena appoggiata alla parete. Alzasti lo sguardo, con gli occhi rigati di lacrime e spalancati dal terrore.
" Kacchan, vattene via! "
Dapprima non seppi cosa fare o come rispondere, ma solo il semplice fatto che un'essere microscopico come te avesse anche solo provato a darmi un ordine mi fece andare fuori di senno. Ti presi per la maglietta, e non ti diedi nemmeno il tempo di realizzare che ti mollai un pugno in piena faccia, accompagnato da un calcio negli stinchi, che ti fece cadere di nuovo al suolo. Un rivolo di sangue ti colava dal naso, macchiandoti la maglietta. Non osavi guardarmi.
" Non ti azzardare a dirlo a qualcuno, o ti spacco la faccia. "
Quella fu la prima volta che alzai le mani su di te.
E mi sono sentito bene.

Oggi è finito un altro giorno di prigionia. Le luci si spengono tutte a un tratto, ma ormai da ore sono nella mia branda, a fissare il soffitto. Questo soffitto bianco, che non è mai cambiato nel corso degli anni.
Quando mi ritrovo a pensare a te divento immediatamente nostalgico. I pochi ricordi belli che serbo nella mia memoria sono tutti insieme a te: quando facevamo le nostre esplorazioni, o quando rubavamo i vestiti dei nostri genitori per travestirci, o anche quando costruimmo un fortino coi cuscini del divano. Mi sembrano uno strano sogno, che tuttavia col tempo non si offusca, anzi; rimane nitido nella mia mente, come una fotografia. Vorrei sapere come te la passi, se mi ricordi, se sei arrabbiato con me, se anche a te capita di pensarmi.
Onestamente, ho paura che tu ti ricordi di me. Ho paura che tu abbia visto il bambino egoista e superficiale che ero, capace di guardare solo verso sè stesso, e capace di fare dal male persino al suo piú caro amico, solamente per colpa del suo ego spropositato. Ho paura che tu  abbia carpito i segnali che nemmeno io sapevo di stare lanciando a tutte le persone intorno a me. Ho paura che tu mi stia cercando ancora, come io in questo momento sto cercando te in ogni dove, scavando nei miei ricordi, dove serbo ogni piú minima sfaccettatura dei tuoi gesti e delle tue abitudini, che al tempo mi apparivano strane e stupide, ma che adesso mi donano calma e mi regalano una tenerezza inaudita.
Cosa ne abbiamo fatto di quei momenti?
È stata tutta colpa mia.
Solo mia.
Cosa?
Una lacrima?
No, non adesso. Non ora, non qui. Ritorna indietro, ti prego.
Non voglio farlo qui.
La lacrima scende imperturbabile lungo la guancia, fino a toccare il tessuto ruvido del cuscino, che si bagna in un microscopico cerchio.
Vedi? Non ho nemmeno un posto decente su cui piangere.

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