Capitolo 4

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La nuova guardia è stranamente piú gentile con me. Certo, non che mi tratti come un piccolo cucciolo desideroso di attenzioni, ma nei suoi modi di fare percepisco un vago sentore di compassione. Sará perchè è una donna, oppure perchè, vista l'età che dimostra, vorrebbe un figlio. Magari ce lo ha giá, e vorrebbe solo tornare a casa per stringerlo tra le sue braccia.
Potrei perfino valutare di posticipare la sua fine.
Dalla stanza affianco alla mia si sentono delle grida sorde che si fanno sempre piú intense ogni minuto che passa. I versi acuti mi perforano le orecchie, facendoli assomigliare a un latrato di un animale ferito. La donna si mette una mano all'orecchio, cercando stupidamente di smettere di ascoltare.
Al mio presunto ( o presunta, questo non mi è dato saperlo ) compagno di cella non devono aver ricaricato il bracciale con il fluido che ci protegge dal rigetto. Le otto ore sono passate, per lui. Non serve piú a nulla, o almeno così hanno deciso gli stronzi dall'altra parte del vetro. Il dolore diventa insopportabile, fino a mandare in tilt il cervello. Il tutto dura meno di otto ore.
Le grida cessano di colpo. Il rumore della porta che cigola e poi di qualcosa che viene sollevato e trascinato via, seguito dai respiri affaticati della guardia. La donna abbassa la testa, con le labbra serrate.

Oggi è il venti aprile. Ormai ho sedici anni, e sono undici anni che sono rinchiuso qui dentro. Lavo via il sangue dalla camicia, come ogni giorno dopo una sessione di esperimenti che mi lasciano debole come uno straccio. Ho deciso di posticipare di un mese l'uccisione della guardia. Per un pó è meglio che me ne resti buono, in modo da non far arrabbiare troppo quelli degli alti ranghi. Va bene che sono un esemplare piú che raro, ma non si puó sapere cosa possono farmi, e io devo pur sempre cercare di sopravvivere.
Devo smetterla di autocompatirmi. Me lo sono giurato a dodici anni, quando ho ucciso la mia prima guardia, e ora voglio mantenere la mia promessa.
La notte incombe nella mia stanza molto piú tardi del solito. Si vede che hanno adattato le ore di luce con quelle delle stagioni all'esterno, magari per temprare ancora di più il mio fisico. Anche questo, come tutta la mia vita d'altronde, è solo parte di un gigantesco esperimento.
Mi sdraio sulla mia brandina, mentre la donna rimane in piedi, con gli occhi attenti fissi su di me. Noto degli accenni di occhiaie che cominciano a spuntarle sotto gli occhi, segno delle notti in bianco passate a sorvegliarmi. Io mi giro dall'altra parte, chiudendo gli occhi.
Le ore passano, ed è sempre tutto uguale.
Fino a quando non succede.

Dura tutto pochissimi attimi, come un fulmine. Non ho nemmeno il tempo di aprire gli occhi che il condotto dell'aria posizionato sul soffitto si scardina. Sento dei passi velocissimi dirigersi verso la donna, che trattiene a stento un gemito soffocato. Un rumore metallico arriva fino a me, accompagnato da quello della carne infilzata e dal sangue che fuoriesce copioso. Non riesce nemmeno a cadere, che quella cosa  prende la guardia e la posa a terra, senza nessun rumore.
Non ho osato girarmi. Il sudore scende sottoforma di piccole goccioline dalla mia fronte, mentre gli occhi minacciano di far fuoriuscire un fiume di lacrime. Mi metto una mano davanti alla bocca, per coatringermi a non urlare. Davanti a me vedo solo l'ora rassicurante muro di piastrelle lucide e fredde, che come paesaggio mi sembra mille volte piú sopportabile di quello che ho alle mie spalle. L'oscuritá mi avvolge come una morsa, impedendomi di respitare e di muovermi. Mi si infiltra negli occhi, nel naso, in bocca, nel cervello, sotto la pelle. Mi autoconvinco che no, non puó essere. È un sogno. Adesso mi sveglio e mi ritrovo di nuovo qui, in questa lurida stanzetta, e mi faccio aprire di nuovo da quel chirurgo.
La figura si avvicina lentamente a me. Posso sentire i suoi passi lenti avvicinarsi, e la sua presenza che si fa sempre piú prevaricante. Ogni muscolo del mio corpo è teso come corde di violino, tanto che ho paura che possano rompersi in qualsiasi momento. Chiunque sia, lasciami vivo.
Ormai è sopra di me. Tremo in modo incontrollabile, sapendo giá che di lì a pochi secondi la mia vita sará giá finita. Vuole uccidermi perchè sono un Glitch? Benissimo, faccia pure. Ma non pensi di farcela senza combattere.
Potrei chiamarlo uno slancio di entusiasmo, coraggio, oppure di follia pura. Ebbene, il mio istinto di sopravvivenza ha la meglio sulla paura. Per una volta nella mia vita mi era stata data una scelta.
Ero sempre stato succube degli eventi. Mi ero lasciato andare a me stesso, trascinando i brandelli della mia anima nelle sale operatorie, e lavando via i miei rimorsi insieme al sangue che versavo in quel maledetto secchio. Voglio davvero che tutti i miei sforzi di ribellione, che mandavo avanti da oltre tre anni senza mai fermarmi, non tossrri serviti a nulla?
Voglio davvero vivere, o quella che ho ingaggiato è una lotta che non ho mai sperato di vincere?
La rabbia mi monta nel cervello come un toro imbufalito, ubriacandomi di coraggio. Non soffriró mai piú senza un motivo.
Se devomorire, preferisco farlo da uomo libero.
Mi giro repentinamente verso la figura, e nella penombra il mio coraggio svanisce di colpo. Tutto si frantuma, lasciandomi in un mare di incertezze senza risposta.
È coperto da un cappuccio nero, in modo che le telecamere non possano individuare quella massa di capelli di un verde scuro, ancora piú spento dalla scarsitá di luce. Anche gran parte del viso è nascosta sotto un girocollo nero che gli copre la bocca e il naso. Ma gli occhi, quelli luccicano di una luce così forte che mi sembra che la stanza sia illuminata a giorno. Sono occhi pieni di speranza e di gioia, occhi che avevo pensato non avessi piú potuto vedere, e che pensavo avessi rovinato.
Tu, avvicinandoti al mio orecchio, sai soltanto dire:

" Ciao, Kacchan. "

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