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Non avrei saputo indicare il momento esatto nel quale la nostra relazione si era incrinata. Non avrei saputo segnare, su un'immaginaria linea temporale con un'immaginaria puntina da disegno, il preciso istante che aveva ribaltato le sorti della nostra storia. Forse per te era il contrario; forse per te quel momento esisteva e l'avevi percepito distintamente la prima volta che vi eravate tenuti per mano; la prima volta che vi eravate scambiati un bacio; la prima volta che...
Per me era stato un lento ma graduale allontanamento. Passare il tempo libero per conto nostro invece che insieme, addormentarci con un 'buonanotte' sussurrato senza emozione, evitare il contatto fisico quasi ci vergognassimo di vivere sotto lo stesso tetto. Mi era sembrato come se stessi guardando la fiamma di una candela affievolirsi al rallentatore senza che riuscissi ad impedirle di spegnersi. E ora stavo lì, a fare i conti con i nostri sentimenti, mentre mi riversavi addosso la verità. Ma aveva importanza? Appoggiato al bancone della cucina, nel vano tentativo di aggrapparmi a qualcosa di concreto, stavo ad ascoltarti mentre mi spiegavi le tue ragioni e non capivo cosa potessi mai farmene di quelle parole. Non cambiavano il fatto che non ero riuscito a darti quello di cui avevi bisogno e che ora avevi trovato chi poteva sopperire alle mie mancanze.

«Sento di non amarti più. Ti voglio bene ma non provo più amore nei tuoi confronti. So che avrei dovuto dirtelo molto prima ma–»
«Ma cosa? Se mi volessi bene come dici, mi avresti portato un minimo di rispetto andandotene da casa mia prima di farti scoprire con un altro.»

A cosa servivano le parole? A cosa servivano se ti avevo già irrimediabilmente perso. Non avevi nemmeno il coraggio di sostenere il mio sguardo. E forse era quello a farmi più male. Più male della tua confessione; più male della tua presa di coscienza. Il tuo non riuscire a guardarmi negli occhi mentre mi spiegavi come e dove vi eravate conosciuti, cercando di farmi capire che se ti eri innamorato di lui non potevi farci niente, che le emozioni non si possono comandare. Ma ne avevo abbastanza di tutte quelle parole. Erano solo una cornice alla nostra foto ormai sbiadita.

«Te ne devi andare.»

✦✧✦

«...Yoongi?»
La voce di Namjoon mi richiamò alla realtà. Lo guardai visibilmente spaesato e sembrò pentirsi di avermi rivolto la parola.
«Scusa, stavo...» non seppi come terminare la frase «Dimmi, hai bisogno?»
«Mi si è inceppato il programma e non capisco cos'ho combinato.» si passò una mano sulla nuca, fissando scocciato il computer. Mi alzai per raggiungere la sua postazione e capire di che problema si trattasse. Dando uno sguardo allo schermo colsi l'intoppo «Non riesci a tornare indietro perché prima devi deselezionare tutto, così.» gli feci vedere come fare «Il metodo che stavi usando va bene ma se vuoi evitare mille passaggi inutili ti conviene fare in questo modo...» digitai uno shortcut dalla tastiera mostrandogli il metodo migliore per eseguire quel comando «Visto? Molto più comodo.»
Namjoon si sistemò la montatura degli occhiali e mi guardò riconoscente «Grazie! Mi sto trovando un po' male da quando abbiamo cambiato programma.»
Gli risposi tornando al mio posto «Non ha un'interfaccia molto intuitiva; anch'io ho avuto qualche problema inizialmente.»
«Lo usavate da molto tempo, in sede?»
«Circa sei mesi...» non ebbi il tempo di finire la frase perché fui raggiunto da una delle segretarie
«Min Yoongi! è atteso nell'ufficio del Signor Lee.»
Cosa voleva il capo da me? L'unica volta che l'avevo visto era stato durante il mio primo giorno di lavoro dopo il trasferimento. Mi avviai verso l'ufficio non prima di aver lanciato uno sguardo interrogativo a Namjoon il quale mi rispose con un delicato sorriso d'incoraggiamento.

La segretaria mi annunciò. Varcai la soglia della stanza ritrovandomi di fronte al capo che, seduto alla scrivania, mi squadrò facendomi poi cenno di accomodarmi. Deglutii passando mentalmente in rassegna ogni mia mossa effettuata dall'arrivo in quella succursale ma non vi trovai nulla di sbagliato o problematico; percepii i muscoli irrigidirsi mentre mi sedevo di fronte a quell'uomo di mezza età, dall'atteggiamento burbero.
«Min Yoongi l'ho convocata nel mio ufficio perché sono stato contattato da un cliente che ha richiesto un lavoro di ristrutturazione per un'ala della sua villa.»
Sentii il corpo rilassarsi a quelle parole; a quanto pareva non sarei stato richiamato o licenziato. Annuii, prestando totale attenzione al mio interlocutore.
«Vede, questo cliente è figlio di un autorevole imprenditore che lavora per la Samsung. Il padre, il Signor Kim, è nostro cliente ormai da anni; abbiamo avuto più volte a che fare con lui sia in ambito pubblico che privato.» mi consegnò un plico di fogli contenenti informazioni riguardanti il cliente e l'incarico. Non riuscivo a capire perché mai avesse scelto me per quel compito che suonava di gran peso. La risposta arrivò poco dopo quando, con voce consumata da anni di sigarette, esclamò «Ho a cuore quest'azienda e i suoi dipendenti. La crescita del nostro nome passa anche per la crescita del personale. Crede di potersi far carico di questo progetto?» mi guardò dritto negli occhi e mi obbligai a sostenere lo sguardo per dare più credibilità alle mie parole «Sì Signore. Non la deluderò.»
Sorrise a malapena congiungendo le mani sopra la scrivania «Pensi a non deludere il cliente e non deluderà neanche me.»

✦✧✦

Parcheggiai l'auto in garage e mi avviai al piano terra, la testa ancora ferma alla conversazione avuta quel pomeriggio con il datore di lavoro. Ero al contempo elettrizzato e inquieto; avevo già lavorato per progetti di una certa misura ma sempre in team o affiancato da un supervisore. Ora sembrava essere arrivato il momento di mettersi alla prova e dimostrare di potercela fare da solo. Sapevo già avrei passato la serata a visionare le carte consegnatemi in ufficio per farmi trovare pronto l'indomani quando avrei contattato il cliente.
Varcai la soglia del pianterreno e alle mie gambe stanche l'ascensore sembrò più invitante delle scale. Le porte stavano già per richiudersi quando un piede ne interruppe lo scorrimento e mi ritrovai davanti il ragazzo dai capelli arancioni incontrato qualche sera prima.
«Ciao!» mi sorrise mostrando dei denti perfetti e bianchissimi. Forse un po' troppo grandi.
«Ciao...» dissi accigliato, irrigidendo involontariamente la schiena e voltando lo sguardo verso la parete. Lo fissai di nascosto attraverso lo specchio che mi stava di fronte. Era al telefono con qualcuno. Anche quel giorno indossava una tuta sebbene non fosse la stessa della volta precedente; il solito borsone verde poggiato sulla spalla, ad occupare gran parte dello spazio in quell'ascensore che non mi era mai parso così piccolo prima di quel momento.
«Certo che voglio! Ti passo a prendere io sabato sera, ok?»
Inchiodò i suoi occhi neri nei miei attraverso lo specchio; abbassai repentinamente lo sguardo ad osservare il pavimento color panna, conscio di essermi fatto scoprire per la seconda volta a fissarlo.
«Ok, ciao pasticcino!»
Non riuscii a controllare l'espressione disgustata che mi si disegnò in volto. La porta si aprì e sgattaiolai fuori oltrepassando il ragazzo intento a concludere la telefonata con quella che doveva essere la sua dolce metà. Un senso di fastidio mi pervase; volevo solo entrare in casa e allontanarmi da quel tipo.
«Arrivederci!»
Voltai la testa quel tanto che bastava per non risultare maleducato ma feci attenzione a non incrociare il suo sguardo «Arrivederci.» risposi con una voce che non mi sembrò mia e mentre il vicino stava ancora armeggiando con le chiavi di casa, io avevo già richiuso la porta alle mie spalle, finalmente al sicuro.

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