<< Wedding bells ain't gonna chime
With both of us guilty of crime
And both of us sentenced to time
And now we're all alone >>
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Le note scivolavano nell'aria come un fiume in piena: armoniose, letali ed impossibilmente feroci. Echi lontani reclamavano la melodia che, come molte altre, aveva aggravato innumerevoli pomeriggi della mia infanzia – un'infanzia nefasta, funerea, che eppure ricordavo come il mio ultimo momento di beata inconsapevolezza.
La danza era stata l'unica mia fedele compagna di vita, una costante da me ripudiata e rinnegata che, tuttavia, non mi aveva mai respinta a sua volta.
Per molte mie coetanee – a cui la vita aveva sorriso, bambine dai vestiti di pizzo e seta dal cuore leggero e spensierato -, la danza non era che un capriccio assecondato da genitori amorevoli, desiderosi di garantire solo il meglio per le proprie adorate principessine rosa; per me, marionetta dagli occhi di porcellana, la danza era l'ennesimo vano tentativo di compiacere due fantasmi, di eccellere al punto da meritarmi l'affetto di coloro che a loro volta eccellevano in tutto tranne che amare se stessi e me.
Quando mi resi conto che nessuno mio sforzo sarebbe mai stato abbastanza, quella che inizialmente consideravo una preziosa occasione per avvicinarmi finalmente ai miei genitori, si tramutò progressivamente in un'atroce tortura.
Fu proprio la danza ad insegnarmi una delle lezioni di vita più importanti: quell'ennesimo fallimento m'insegnò a curarmi di nessuno, se non di me stessa.
Sì, odiavo danzare.
Odiavo i fili a cui avevano indissolubilmente legato le mie membra, contro ogni mia fievole preghiera. Inutilmente versai fiumi di lacrime nella speranza di liberarmene: i miei genitori non avrebbero mai sprecato la possibilità di farmi apparire migliore di quanto non fossi, la figlia trofeo per antonomasia, che tutti avrebbero ammirato.
All'epoca, ciò che più odiavo delle tremende lezioni pomeridiane erano le crudeli bacchettate di un'insegnante il cui volto avevo preferito dimenticare, ma che – ricordavo bene - m'incitava marmorea a nulla meno che la perfezione.
Raggiunta la maturità necessaria per comprendere certe odiose verità che il mondo c'impone, guardando al passato, realizzai che in realtà ciò che più odiavo della danza era il dovermi sottomettere ai capricci altrui, come se piegarmi senza alcuna possibilità di resilienza fosse qualcosa di insito nella mia stessa natura – come se fosse ciò che il mondo si aspettava da me.
Rannicchiata sulla poltrona nel salotto, quasi mi scappò un sorriso nel realizzare quanto il Creatore dovesse odiarmi – odiare me, la bambola, il coccio e infine il guscio vuoto su cui aveva indifferentemente vomitato il suo rancore: non ero altro che un viscido serpente intento a divorare la propria coda, lentamente, fino ad annientarsi completamente per mezzo del suo stesso veleno. Nemmeno la morte avrebbe spezzato l'eterno ritorno dei miei tormenti.
<< Sebastian, >> tirai un sospiro: << getta immediatamente quel dannato aggeggio tra i rifiuti, lo voglio lontano dalla mia vista e soprattutto dalle mie orecchie. >>
Non aprii gli occhi per indagare ulteriormente, ebbi la conferma che il mio ordine fosse stato eseguito non appena le delicate note del grammofono smisero di tormentarmi.
<< Siete di buon umore oggi, padroncina. >> canzonò quasi in maniera beffarda.
Non era una domanda, e quasi fui sorpresa nel constatare che il demone aveva ormai imparato a conoscere me e il mio temperamento. Ancora una volta, una patetica copia di un sorriso si fece strada sul mio volto.
<< Sì Sebastian, lo sono. E sai perché? >>
Riuscii quasi ad avvertire la sua curiosità, il suo improvviso interesse, e me ne compiacqui. L'illusione di possedere la più infima forma di controllo sul mio carnefice mi riempiva di sadico piacere, un lusso che non mi permettevo da molto tempo.
<< E' perché ho ricordato qualcosa d'importante, un qualcosa che da tempo, purtroppo, mi sfuggiva di mente. >> mi alzai dalla poltrona, avvicinandomi all'imponente figura che mi osservava intrattenuta. Quando poi appoggiai una mano alla sua gelida guancia, perdendomi volontariamente in quelle iridi tanto disumane quanto accattivanti, il demone non si mosse, pendendo dalle mie labbra.
<< Sai, è lo stesso motivo che mi spinse ad evocarti, a ricercare l'aiuto di una creatura come te ormai anni or sono. Lo stesso maledetto motivo per cui, al mio ordine, ti sbarazzasti di quei penosi esseri che chiamavo 'genitori'. >>
Strinsi il demone nella mia morsa, sentendomi potente come immaginavo lui si sentisse ogni qual volta riuscisse a straziarmi. Feci correre le mie unghie lungo il suo volto, premendo con ceca veemenza fino a causare timide gocce di sangue. I miei occhi continuarono a sfidare il suo sguardo magenta, nel quale riuscivo a scorgere un barlume misterioso e fugace: vi trovai una malata e contorta adorazione, istigata dal mio ritrovato spirito provocatorio e vendicativo. Sebastian si abbassò su di me, lasciando che il suo sorriso si espandesse in una smorfia malefica – oh se solo avessi potuto vedere quanto gli assomigliassi in quel momento.
<< Non ricordi? Io odio danzare >>
Nota dell'autrice: sì, sono viva e vegeta, contro ogni previsione. Negli ultimi mesi ho iniziato l'università dando anche il mio primo esame e tutto lo stress derivante mi ha inaspettatamente spinta a continuare questa storia - di cui mi ero completamente dimenticata in favore di mille altre fanfiction che ho iniziato a scrivere sul mio altro account. In ogni caso, buon anno nuovo! (con un lieve ritardo). Spero che la storia vi possa piacere tanto quanto a me piace scriverla!
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𝒑𝒆𝒓𝒆𝒅𝒐 [ Sebastian Michaelis ] [DISCONTINUED]
Fanfiction[pĕrĕdo], pĕrĕdis, peredi, peresum, pĕrĕdĕre ➖ verbo transitivo III coniugazione 1 divorare ; 2 consumare, corrodere . ¶ 𝓑𝓵𝓪𝓬𝓴 𝓑𝓾𝓽𝓵𝓮𝓻 𝓪𝓾 : ❝ Tu mi hai chiamato a te ed io ho risposto. Ti ho tirata fuori dalle tenebre, trascinandoti s...