Dopo tutto ciò che era accaduto a stento riuscivo ad alzarmi dal letto per andare in bagno. Credevo che la vita mi volesse morta, e pure una piccola parte di me lo voleva. Io cercavo di mostrarmi sorridente e positiva a mio fratello per non farlo preoccupare. Ma lui mi conosceva troppo bene, sapeva che c'era qualcosa che non andava ed era certo che non gliene avrei mai parlato. Così decise di portarmi da una psicologa, contro la mia volontà. Feci di tutto per non andarci: gli promisi di pagargli una giornata alla spa, finsi di stare male, gli promisi di cucinargli la pizza tutte le sere per un mese, cercai persino di ipnotizzarlo facendogli credere che i miei comportamenti fossero frutto della sua immaginazione, ma nulla lo convinse. Alle 5:00 di un giovedì mi portò in uno studio in centro città. La psicologa che mi visitò si chiamava dottoressa Patricia Bagasha. Era magra, sulla quarantina, capelli castano scuro, occhi nocciola, labbra sottili con rossetto rosso, occhiali rettangolari con bordi neri. Aveva una camicia bianca, una gonna a tubino nera che arrivava alle ginocchia, scarpe nere con il tacco. Aveva una voce rassicurante, sorrideva sempre. Mi fece accomodare in uno studio molto ampio, con pareti grigio chiaro, modanature e battiscopa bianchi. Un divano a due posti bianco al centro della stanza, e davanti a questo , distanziata a più di un metro, c'era una scrivania marrone chiaro con una sedia da ufficio bianca. Di fronte alla porta c'erano tre finestre molto grandi con bordi in acciaio, da cui filtrava molta luce, si affacciavano su un parco. Lei mi chiese di raccontarle cosa mi affliggeva, all' inizio non riuscivo ad aprirmi, ma alla fine le spiegai tutto. Con mia grande sorpresa lei non sembrò sconvolta. Cercò di rassicurarmi e mi disse di bruciare tutto ciò che mi ricordava l'accaduto. Alle 6:00 uscì dallo studio che avrei rivisto la settimana dopo. Decisi di tornare a casa da sola a piedi. Mentre camminavo ammiravo le sfumature del cielo sul rosa, ma in quel momento mi passò davanti un'ambulanza che sfrecciava a tutta velocità. A quella vista mi angosciai, ma poi andai avanti cercando di non pensarci.
Arrivai a casa ancora turbata da ciò che mi aveva tetto la dottoressa. Forse dovevo seguire il suo consiglio, Mettere da parte il mio orgoglio che mi illudeva dicendomi che ce la potevo fare benissimo da sola. Mi preparai un'insalata con tonno, pomodori e mozzarella. Me la portai sul divano e accesi la tv. Mio fratello non era ancora tornato. Mi aveva chiamato mentre stavo tornando dicendomi che un suo amico lo aveva invitato a casa perché era il suo compleanno e quindi avrebbe tardato. Alla tv parlavano di un ragazzo di vent'anni ritrovato morto in una casa vicino ad Alexandria. Il mio cuore saltò un battito quando mostrarono la villa dove era stato ritrovato. Era quella dove ero stata io due settimane prima. Dovevo sapere di più. Il ragazzo si chiamava Edward Harl, aveva il mio stesso cognome, eppure io non avevo altri parenti al di fuori di Cole. Feci delle ricerche su Google, passai ore ed ore davanti allo schermo di quel portatile senza trovare nessun legame di parentela con lui. Non poteva essere una coincidenza che un ragazzo col mio stesso cognome fosse stato trovato morto nella stessa struttura dove mi trovavo io poco prima. Ancora una volta era notte fonda ed ero ancora sveglia. Non sapendo cosa fare decisi di liberarmi di ciò che mi fa male. Accesi il camino e presi il bigliettino con su scritto l'indirizzo di quel villino. Tremando lo gettai tra le fiamme ed improvvisamente sentì scendere delle lacrime dai miei occhi. Mi asciugai le lacrime e mi rimisi sul divano. Dopo poco mi addormentai. Al mio risveglio mio fratello era affianco a me con un sacchetto contenente un cornetto al cioccolato ed un cappuccino. Lo abbracciai ed iniziai a mangiare. Lo ringraziai per tutti gli sforzi che aveva fatto per me e lui scoppiò in lacrime. Era contento per la vita che era riuscito a creare per noi due. Il suo era solo un pianto di gioia. Ordinai la mia stanza e nel farlo notai un pezzo di carta sulla scrivania. Era proprio quello che avevo bruciato la sera prima.Non mi stupì più di tanto, era come se mi fossi abituata a tutte quelle stranezze. continuai a pulire come se non fosse successo nulla. Il pomeriggio, verso le 3:00, iniziò a piovere a dirotto. Io odiavo da sempre la poggia, mi metteva malinconia, ma in quel momento fui così contenta, credevo non esistesse momento migliore per la pioggia. Mi identificavo molto in quell'intemperia. Mi sedetti sul divano con una cioccolata calda e guardai fuori dalla finestra. Iniziai a pianificare la ma vita futura, come era solito che facessi nei momenti in cui ero contenta. Poi ripensai al passato, a tutti gli sforzi fatti, alle facce viste e mai più riviste, tutti i pianti e le paure. Così mi feci forza e mi convinsi che potevo tranquillamente farcela. Pianificai tutte le mie prossime mosse per evitare eventuali voglie di tornare in quella casa del demonio. Eppure mentre scrivevo quelle idee non ero pienamente sicura di ciò che stavo facendo, così accartocciai il foglio di carta e lo feci bruciare nel camino. Guardai incenerire ogni singola parte di quel pezzo di carta e per un attimo sentì il diavolo dentro di me, ma poi quella sensazione sparì lasciando posto ad un implacabile angoscia. Erano le 20:30 quando qualcuno suonò alla porta. Mio fratello mi guardò chiedendomi con gli occhi se io centrassi qualcosa, ma gli feci capire che ero più stupita di lui. Cole aprì e davanti alla soglia c'era un ragazzo sulla ventina, si presentò a noi dicendo in tono presuntuoso << Salve a tutti il mio nome è Irvin Lies>> . Disse che era il figlio della dottoressa Bagasha e che voleva fare la mia conoscenza perché aveva saputo della mia storia ed era affascinato. Mio fratello era visibilmente irritato e tentò di sbattergli la porta in faccia ma io glielo impedii. Vedevo qualcosa di oscuro in lui. Qualcosa che mi potesse aiutare.In quel momento mi balenò in mente Sam. Non la sentivo da tanto perché stava passando un momento brutto con la sua famiglia e voleva essere lasciata da sola. Non poter fare niente per aiutarla era una cosa che mi intristiva molto. In quel momento mi venne voglia di piangere ma non lo feci. Credevo che Irvin sarebbe riuscito a distrarmi da quella situazione di tristezza. Così ,senza il consenso di mio fratello, lo feci accomodare. Gli offrì una tazza di caffè, poi iniziammo a fissare gli incontri per parlare di ciò che mi era accaduto.Appena Irvin se ne andò mio fratello mi guardò con aria di rimprovero ma io lo ignorai ed andai a dormire.