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~ Peluche ~

Ritornare in una sala giochi dopo tutti quegli anni era stato divertente. Ma ancora meglio era stato stracciare Jason appena ebbi ripreso la mano con Dance Mania.
Un piccolo gruppo di ragazzi delle superiori - i quali avevano ovviamente saltato la scuola - si erano fermati a vedere la nostra guerra e mi avevano pure fatto un giro di applausi appena avevo finito di stracciare il mio avversario.
Dopo un paio di inchini, comunque, Jason aveva notato la giacca della Gotham Accademy e gli aveva fatto un piccolo discorsetto su quanto fosse sbagliato saltare le lezioni. Mamma Jason alla riscossa, signori e signore!
Anche se la scena mi aveva fatto sorridere, soprattutto perché non avrei mai preso Jason per una figura paterna così buona, nello stesso momento mi ritrovai a pensare se in quindici, sedici anni quella a sgridare un figlio sarei potuta essere io, se non avessi perso mio figlio.
Nell'ultimo mese il "cosa sarebbe successo se" era un mio compagno costante. Senza più un compagno, dei genitori e un lavoro; il mio cervello guazzava in quel limbo infinito senza interruzzioni.
Se fossi stata più forte sarei riuscita a tenere il bambino? Sarebbe stato un maschio o una femmina? Avrebbe avuto i miei occhi? Il mio sorriso?
E continuavo così fino a quando Morfeo mi stringeva fra le sue braccia, facendomi dimenticare tutto.
L'unica cosa di cui ero soddisfatta era di non essermi mai chiesta cosa sarebbe successo se Andrew fosse rimasto con me.
Dopo la dipartita dell'uomo, passato il cuore spezzato, mi resi conto quanto la relazione con lui mi avesse reso infelice. Andrew aveva bloccato ogni mio contatto con il mondo esterno facendomi concentrare solo sul lavoro e sui soldi - ora vedevo perché era andato così a genio ai miei genitori.
Mi aveva fatto perdere una gran parte delle gioie della vita e non me n'ero accorta fin quando lui non se n'era andato.
E per quanto i miei mi incolpassero della dipartita dell'uomo, io ne ero grata.
La prima notte passata sul divano, Netflix accesso e sacchetti vuoti di cibo spazzatura tutti intorno a me, senza Andrew, ero scoppiata in lacrime poiché stavo facendo qualcosa per me dopo anni passati a fare cose solo per qualcun altro.
Distolsi lo sguardo da Jason, sperando di ritornare con la testa al presente, quando i miei si incollarono al banco dei premi. La parete era coperta di peluche, da quelli orribili, a quelli coccolosi e a quelli giganti. Gettando fuori dalla finestra tutte le mie buone intenzioni il mio cervello decise di partire come suo solito.
Mio figlio sarebbe stato un raccoglitore ossessivo di peluche come me? O avrebbe avuto quel singolo peluche, un po' sgualcito, che avrebbe amato più della sua stessa vita? Avrei dovuto imparare a cucire per metterglielo a posto?
Sarebbe stato un orsetto o un coniglio? Magari quello con una finta giacca di pelle?
Avrebbe pianto come una fontana la prima volta che l'avrebbe perso e avrei dovuto fare i salti mortali per trovarlo perché lui, o lei, voleva quel peluche?
Magari dopo aver imparato a rattopparlo, mio figlio mi avrebbe chiesto di insegnargli a cucire per poterlo fare da solo?
«Ehi, ehi», la voce di Jason mi portò alla realtà. Voltai di scatto la testa e notai l'uomo a poco più di un braccio da me; i ragazzi di prima da nessuna parte. «Ti stavi facendo un viaggio infinito e non hai neanche avuto la decenza di invitarmi!»
Sorrisi quando Jason mise un finto broncio.
«Tranquillo», gli dissi gentilmente, «non era nulla di così importante».
Jason mi studiò un attimo in viso, cercando qualcosa, poi scosse la testa con fare deluso.
«Per quanto tu sia brava a mentire, e bada, detto da me è molto», mi riprese lui, «ho visto come studiavi i peluche. Qualunque pensiero ti stava passando per la testa era importante, per te».
Abbassai un attimo gli occhi sulle scarpe, sentendomi un po' colpevole di essere stata beccata a mentirgli. Con la coda dell'occhio tornai a fissare i peluche e, dopo essermi torturata il labbro inferiore, decisi di togliermi quel peso dal petto.
«Quale peluche pensi che un bambino apprezzerebbe di più?» Gli chiesi guardando prima lui e poi lo stand.
Notai con la coda dell'occhio come Jason si irrigidì e mi guardò con uno sguardo strano, era odio quello nelle sue iridi?
«Hai un figlio?» Mi chiese a denti stretti, le mani strette a pugni, ma cercando di trattenere la rabbia.
Scossi il capo, non capendo il perché di quel comportamento.
«No», risposi con voce debole, spaventata dal nuovo Jason, «avrei potuto averlo, ma la natura e la vita hanno deciso di togliermelo prima».
In un attimo l'odio negli occhi di Jason scomparve e venne sostituito da tristezza. Non pietà, constatai. Il corpo dell'uomo si rilassò a sua volta.
«L'hai perso».
Non era una domanda ma annuii comunque.
«Un mese fa, circa».
Rimanemmo un attimo in silenzio però la curiosità prese il sopravvento.
«Prima cosa stavi pensando?» Chiesi direttamente. «Eri rigido e per un secondo ho pensato che mi stessi per uccidere».
Jason divenne rosso alla mia osservazione, grattandosi la nuca, ovviamente in imbarazzo.
«Per un attimo ho pensato che stessi per lasciare un bambino senza una madre». Rispose lui con voce tirata e sentii una fitta al cuore.
«Ora credo che sono io quella che vuole ucciderti». Gli sibilai. Ero offesa, ero offesa all'idea di essere scambiata per quella testa di cazzo del mio ex.
«Non sono come il mio ex: mi ha lasciata appena ha saputo della mia dolce attesa. Erano anni che stavamo insieme, aveva sempre parlato di voler una famiglia numerosa. Il dolore è stato così forte da farmi avere un aborto spontaneo».
«Scusa». Disse lui e dal tono compresi che le intendesse davvero. «È stato un riflesso pensare che avessi deciso di abbandonare tuo figlio, i miei genitori naturali l'hanno fatto, in un certo senso, con me».
Mi sentii i sensi di colpa crescermi dentro a quella rivelazione: lo avevo attaccato senza sapere nulla di lui.
«Mi dispiace per quel che ti è successo». Gli dissi, sperando comprendesse i miei pensieri e non scambiasse il mio dispiacere per pietà.
«Non ti preoccupare, il mio padre adottivo mi ha tirato fuori da quella vita fortunatamente». Mi spiegò e non potei fare a meno di ridacchiare.
«Ha un figlio proprio grato», lo presi in giro, «così grato da rubargli le carte di credito».
«Non è colpa mia se ha lasciato il portafoglio incustodito sulla scrivania», fece spallucce lui. «Meglio per me, posso offrire a questa splendida donna ore e ore di intrattenimenti senza andare a danneggiare il mio conto».
Ed eccolo che ritornava con il suo sorrisetto tagliente. Ruotai gli occhi al cielo con un sorriso in volto.
«Calmati Romeo», gli dissi. «Se vuoi davvero farmi felice ne hai ancora di strada davanti!»
«È una sfida?» Mi chiese avvicinandosi così da far sfiorare i nostri petti. Dovetti alzare la testa per riuscire a guardarlo negli occhi.
«Chi lo sa». Risposi con lo stesso sorriso in volto. A questo gioco si poteva giocare in due, giusto?

12 Hours Of Unkown || A Jason Todd's Fan Fiction #wattys2019Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora