*Capitolo 1*

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_*Cattleya*_

Avevo seguito le indicazioni di Gary, e tutto è filato liscio.
Mi sono rigenerata con una bottiglietta d'acqua, sotto il sole cocente, raggiungendo Murhad, che era sceso dal furgone, parlando con gli autisti del trasporto merci.

"Scendi." Era stato freddo come il ghiaccio nei nevai, ma nel suo sguardo vedevo la stessa preoccupazione di Gary, mentre ero scesa per venire accolta dagli uomini.
Mi avevano girato intorno e valutato come carne da macello, prima di infilarmi un sacco di Utah sulla testa.
Caricata sul furgone dal tendaggio blu, e sistemata a sedere come una bambola di porcellana.
Preziosa per soddisfare gli uomini delle alleanze.

Tutte silenziose, non so quante siamo, o quanto tempo sia passato da quando sono stata poggiata con il culo, su una panca che mi sballotta a destra e sinistra.
So solo che le viscere sembrano un surfista che cavalca le onde agitate, e si appiattiscono un secondo, per tornare più possenti.
Una musica cubana, arriva leggermente ovattata al mio udito, mentre vorrei vedere qualcosa, ma le mie iridi si schiantano sul buio che emana il sacco.
Il refolo di vento caldo che ci assale, ogni qualvolta la tenda si sposta, creando un rumore battente.

Vorrei dire di sentirmi forte in questo preciso istante, mentre rimugino sul senso del mio piano.
Quello pianificato per rovinare le certezze altrui.
Ricordo in un cortometraggio mentale, i momenti con i miei veri genitori.
Provo dolore e demolizione nel corpo che traballa, ma non riesco a piangere.
I miei bulbi non si velano mai di quella patina vischiosa, restano sempre fieri a guardare tutto come se ogni oggetto o ogni persona al mio passaggio, potesse esplodere sotto il mio sguardo da un momento all'altro.

«Alnzwl. Bsre» Una voce possente si schianta verso di noi, e non mi accorgo neanche che il furgone si è fermato.
Provo ad alzarmi, e subito altre braccia mi braccano, fermandomi i polsi dietro la schiena, che vengono arrotolati con una fune e stretti in un nodo dolente dove stringo i denti per non rantolare dolore.

Non so neanche che lingua sia. Che cosa abbia pronunciato. Ho solo seguito l'istinto, e forse non dovevo.
Mi domando se avrò fatto male ad alzarmi.

«Bsre, alqahba.» Ripete con maggior enfasi la parola di prima, aggiungendo con sprezzo nella voce l'ultima che mi giunge nuova.
Forse è diretta a me.
L'ansia inizia a circolare viziosa, nel mio stomaco a corto di cibo.

Vorrei aprire bocca e chiedere di risparmiami.
Sicuramente mi vogliono uccidere, per essere stata sconsiderata e aver provato ad alzarmi.
Invece preferisco stringere le labbra, mentre queste braccia che mi stringono mi sospingo con violenza in avanti, come se le mie gambe fossero oggetto di adornamento ad un corpo utile solo per sottomettersi al piacere che richiederanno.

Un senso di disgusto mi sale come un conato, e strozza la bocca dello stomaco, ma non mi lascio sopraffare.
Ho scelto questa strada per avere giustizia.

Vengo riscossa solo, dall'uomo che mi intima di salire, fortunatamente in spagnolo.
E ora li avverto altri piedi calpestare il suolo, e altri corpi accanto a me.
Ci spingiamo involontariamente, e inciampo senza volere, schiantandomi con il fianco contro qualcosa di duro, che oscilla sotto di me facendomi sgranare gli occhi. Dove uno spicchio di luce filtra dal sacco che ho ancora in testa, accecandomi dopo tanta oscurità.

«Alqahba!» Ribatte esasperata la voce dell'uomo che aveva impartito gli ordini sul furgone.

Ora so che è diretta a me. Poiché l'uomo che parla spagnolo, traduce con un finissimo «Puta» Ritirandomi su senza alcuno sforzo, per sbattermi le natiche su una nuova panca fredda, che deduco sia quella del traghetto che ci condurrà a l'Havana.

*Orquìdea Salvaje* ~Prossimamente~ Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora