Capitolo due.

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Giorno due. (13.11.2012)

Questa mattina quando ho varcato la porta dell’ospedale ho sperato che lei fosse li, ad aspettarmi, per scambiare anche poche parole con me, ma lei non c’era.

Mi sono diretto allora con passo molto lento verso la sala d’attesa per la mia prima terapia, e mi sono seduto ad aspettare.

Sembrava che il tempo non volesse passare per niente. Più guardavo l’orologio, più sembrava che la lancetta dei minuti scorresse sempre più lentamente.

“Allora sembra che davvero tu passerai molto tempo qua dentro” dentro di me ho saputo subito chi aveva pronunciato quelle parole.

Mi sono girato e lei si é avvicinata a me sorridendo, e facendo rumore con le sue scarpe col tacco.

“Buon giorno dottoressa Evans” le ho risposto io, cercando di evitare la sua domanda.

I suoi capelli oggi erano raccolti in una cipolla alta, con qualche boccolo biondo che le ricadeva ai lati.

“Non sono una dottoressa” ha riso, sedendosi accanto a me.

“Mi scusi” le ho risposto, ridendo.

“Allora, oggi cosa sei a fare?” mi ha chiesto.

Con quella domanda mi ha mandato nel panico. Non sapevo per niente cosa dirle.

Alla fine mi sono fatto coraggio, ed ho inventato un’altra cavolata.

“Devo prendere degli appuntamenti per mio nonno.” forse ho balbettato un po’ nel dirle le cose. Non mi piace di certo nasconderle le cose, ma non voglio nemmeno che provi pietà per me, non in questo modo.

“Oh capisco” ha detto lei sorridendomi. Mi aspettavo che la conversazione sarebbe finita li, invece lei ha detto qualcosa che mai mi sarei aspettato.

“Anche la sera la passi qui? O sei libero?” cosa dovevo rispondere a quella domanda?

‘Meglio se non esco perché potrei sentirmi male da un momento all’altro davanti a te?’ no di certo. Dovevo dire quello che il cuore diceva, e così l’ho fatto.

“No in realtà sono libero. E tu? Fai ancora il tuo turno da stagista?”

“No. Questa sera volevo provare il nuovo ristorante cinese che hanno aperto infondo alla via di casa mia. Ma non so con chi andare”

“Come ho già detto, io sono libero” sapevo già quale fosse il suo intento, ma volevo sentirglielo dire. Volevo sentir uscire dalle sue labbra che voleva invitarmi.

Ma lei non ha detto niente. Si è limitata a prendere una penna, scrivere qualcosa su un foglio e poi strappare quella parte di foglio per porgerla a me.

Dopo che mi ha dato quel foglio si è alzata, e andando via si è girata, “Ci vediamo alle otto.. Primo campanello in basso” e con queste parole se ne è andata, lasciandomi senza parole.

Di certo non mi sarei mai aspettato una cosa del genere. E dopo tutto questo, con quale coraggio dovrei dirgli ciò che realmente faccio quasi ogni mattina all’ospedale? Come posso dirgli che sono malato e che ho i giorni contati? Non posso, anche se so che questo non è giusto. Ma come già ho detto, sono egoista, e non voglio che si allontani da me, la voglio vicina, anche se sono una bomba che può esplodere da un momento all’altro.

Sono appena rientrato dal nostro primo incontro fuori da quelle mura bianche e tristi dell’ospedale.

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