Capitolo tre.

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Giorno tre. (14.11.2012)

Il mercoledì è trascorso tranquillamente.

Questa mattina sono andato all’ospedale come sarà per quasi ogni mattina nei prossimi cinque, sei mesi.

Non mi sono dovuto sedere nella sala d’aspetto perché l’appuntamento prima del mio era saltato.

Non ne ero felice, volevo vederla. Volevo vedere quella ragazza che si muove come se andasse a tempo con una melodia. D’altra parte, lei è una melodia.

Quando sono uscito dalla mia terapia mi sono mosso molto lentamente per i corridoi, ma lei non c’era. Era come se stesse evitando qualcosa. Ma se avesse voluto evitarmi non avrebbe accettato il mio invito di venerdì per cena.

Magari era solamente in ritardo. Ma non averla vista in tutto il giorno, e non averla nemmeno sentita mi ha portato a cercarla nella tarda sera.

                                          ‘Tutto apposto? Non ti ho vista stamani.’

Dopo che gli avevo mandato il messaggio, subito dopo aver mangiato, ho sparecchiato la tavola e ho messo i piatti a lavare, e quando sono tornato in camera con già indosso il pigiama ho notato che aveva risposto al mio messaggio.

                                         ‘Scusami.x ci sono state un sacco di emergenze.

                                           Domani sarai da tuo nonno?’

Da mio nonno? Cosa avrei dovuto rispondere se in realtà non c’era nessun nonno dal quale andare? L’unica cosa che potevo dirle era che domani ci sarò, perché non c’e nessuno da cui andare, ma in ogni caso sarò in quell’ospedale comunque.

Un’ospedale che porta tristezza nella vita di molta gente.

Può portare anche gioia a volte, la gioia dopo un intervento rischioso andato bene, la gioia dello scoprire che non si è ammalati. Ma per me quell’ospedale ha portato solamente morte e vita in pochi minuti.

Morte e vita. Due cose, due parole che non possono essere di certo andare a braccetto, ma che con me, sembrano poter collaborare.

Per me la morte non ha nome, ma se mi chiedessero di dare il nome alla vita, quel nome sarebbe Melody.

Giorno quattro. (15.11.2012)

Il giovedì, appena trascorso, è andato decisamente meglio.

Non appena questa mattina sono uscito dalla terapia l’ho trovata ferma al bancone che parlava con un ragazzo.

Subito il panico si è impossessato di me, e avevo come l’impressione che avrei avuto una crisi respiratoria da un momento all’altro. Ho dovuto usare tutta la forza che avevo per continuare a respirare senza smettere.

Sorrideva e parlava con lui, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo, e lui le sfiorava la mano con molta dolcezza. Lui è cotto. Lo si poteva vedere anche dalla distanza alla quale mi trovavo io.

Secondo dopo secondo, ho recuperato la mia forza, e mi sono avvicinato lentamente, fino ad arrivare a solo un metro di distanza da loro.

“Harry” mi ha sorriso lei, non appena ha notato la mia presenza.

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