Saggio di danza

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Nel Piccolo Borgo tutto è piccolo. A un centinaio di passi dalla porta di casa mia, c'è la scuola dei miei figli. Pochi bambini, poche insegnanti, classi raggruppate. Un posto sufficientemente umano, direi.

L'insegnante del mio piccolo è una donna molto particolare. Talmente magra da sembrare filiforme, dedica il suo tempo a varie cose hippy-bioqualcosa-naturaqualcosa. Niente da ridire sul suo modo di insegnare, anzi. Diciamo che il suo principale difetto è che, nella giornata che la piccola scuola dedica alle attività sportive, il piccolo non può fare, come suo fratello, judo, hockey o nuoto. No. Lui deve obbligatoriamente seguire una delle attività proposte dalla sua insegnante. Robe bioenergetiche, canto euritmico, cose così.

Vengo invitata a seguire il "saggio" (le virgolette sono d'obbligo) che conclude il corso di danza spirituale educativa. Il nome, di per sé, è già in grado di risvegliare la mia orticaria. Ma sono una persona paziente, per cui mi presto a presenziare all'evento.

Nella piccola palestra del centro polifunzionale del comune di Piccolo Borgo regna un'intensa puzza di piedi che ha ben poco a che vedere con la spiritualità. Ci fanno accomodare su dei comodissimi materassini appoggiati a terra. La manciata di genitori presente rimane in silenzio. Si sono tolti tutti le scarpe. Forse le cose sono tutte collegate.

L'insegnante di danza spirituale ci accoglie con un lungo discorso.

I bambini non sono mai lasciati liberi di sperimentare il movimento. I bambini devono capire che i movimenti possono essere intenzionali. Alterna spiegazioni teoriche a momenti pratici in cui rimprovera i bambini che osano spostarsi dalla comoda posizione neutra che lei ha insegnato loro. Trovo tutto molto interessante. Mi fisso le punte dei piedi sperando in un cedimento strutturale della palestra.

I bambini eseguono una specie di coreografia che, nelle intenzioni dell'insegnante, dovrebbe rappresentare il mare. Molta enfasi sul ruolo della rabbia nei predatori. Alcuni genitori sbadigliano, altri fingono impegni imprevisti. Il movimento di massa mi perplime, ma io sono sempre quella che ignora le dinamiche di gruppo.

Siamo rimasti in pochi, quando l'insegnante ci volta e ci obbliga a unirci al gruppo. Dobbiamo impersonare le meduse. Credo. Il piccolo mi si avvicina e mi chiede, tra i denti, se ho finalmente capito perché odia così tanto quella roba. Ma non ho tempo di dimostrargli la mia comprensione materna, perché l'insegnante ci costringe a metterci tutti in cerchio. Dobbiamo far ondeggiare un nastro e dire una parola che comunichi le nostre sensazioni sulla giornata.

«Acqua», dice il primo bambino.

«Pesci», dice il secondo bambino.

Cavoli, due risposte buone. L'insegnante le ripete, gorgheggia, saltella via con il nastro.

«Felicità.»

No, felicità no.

Sento un colpetto dietro la schiena. La Cara Amica - che condivide con me la gioia di avere dei figli nella piccola scuola - mi si avvicina all'orecchio. «Mi raccomando», mi dice. «Questa è una di quelle occasioni in cui non bisogna essere sinceri.»

«Gioia.»

«Mare.»

Il momento tanto temuto arriva. L'insegnante mi si piazza davanti con un sorriso terrificante e mi tende il nastro. Io lo prendo. Dovrei farlo volteggiare, ma sono troppo concentrata. Ho la sensazione che le parole che potrei dire siano già state dette.

«Agonia.»

La Cara Amica mi spinge da dietro. L'insegnante non si sposta. Recupera il nastro.

«Armonia, armonia!» gorgheggia ancora.

Torno a fare la medusa.


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