IRISCerti incontri servono a farti capire che non sempre puoi andare d'accordo con chiunque, che ci sono persone non affini a te, incompatibili, che non faranno mai parte della tua vita. Certi incontri ti fanno capire che ci sono persone che nel corso del tempo hanno perso il loro cuore e non hanno più tempo per l'amore.
Che diavolo ci faceva un ragazzo del genere in mezzo alla gente comune?
Con quell'aria da spaccone e il modo in cui mi guardava nascondendosi dietro gli occhiali da sole, poi? Ne vogliamo parlare? Credeva che non me ne accorgessi? Credeva che non mi accorgessi dei suoi occhi puntati sul mio sedere?
Infuriata per la piega presa in questa mattinata, mi sposto pestando i piedi per terra fino al bar dove mi rifugio per bere un bicchiere di te' freddo, placando così l'incendio che sento divamparmi nelle vene, propagarsi su tutto il corpo. Se ripenso a quello che è appena successo, vorrei mettermi a urlare oppure seguire quel grandissimo testa di cazzo e conciarlo per le feste. Invece, me ne sto qui, nascosta nel mio angolo tranquillo, nella speranza che niente e nessuno venga a disturbare il mio tentativo di riprendere la calma e il controllo che si è dissolto in un attimo con una sola conversazione, fatta con la persona sbagliata.
«Posso portarti altro, tesoro?»
Crystal compare nel mio campo visivo con un sorriso dolce e le sue generose forme che, attirano parecchie persone qui dentro. Ha le guance più rosee del solito, dovute probabilmente, all'uso del blush.
«Un panino, classico, solo pepe e sale, niente aromi vari dentro, grazie.»
Crystal mi fa l'occhiolino, lo sa già che non amo le erbe aromatiche sul cibo, ma preciso sempre per evitare fraintendimenti.
Recandosi dietro il bancone di legno pieno di elettrodomestici, brocche di caffè e succo di frutta, alzatine di vetro con dentro torte di mela e barattoli di biscotti, inizia a prepararmi il panino, canticchiando una canzone che stanno trasmettendo in radio. Questa, è collegata alla tv a schermo piatto posta all'angolo del locale, su una delle tante mensole presenti piene di piante e bottiglie di vino.
Guardo fuori dall'ampia vetrata e i ragazzi stanno continuando a vendere le piante insieme ai braccialetti che ho creato da sola racimolando in un solo giorno tutto il materiale utile per realizzarli. Sfioro in riflesso il mio. Doveva essere l'unico, nero con una perla al centro sfumata di bianco, invece ne ho creato un altro che adesso ha quel grandissimo cafone patentato.
L'immagine di quello stronzo borioso, mi investe e, ancora una volta sono costretta a placare la rabbia che rischia di friggermi la pelle e il cervello bevendo un po' di te'. Non credevo che sarebbe mai accaduto, provare tanto disgusto verso qualcuno senza neanche conoscerlo, intendo. Eppure è successo. È stato un attimo. Sentire quella voce, quel tono roco, graffiante a strapparmi qualcosa dentro, a farmi reagire in maniera spropositata. Solitamente non sono così aggressiva e non ho voglia di staccare la testa a morsi alle persone che incontro mentre lavoro per una buona causa.
«Giornata iniziata male?», chiede pulendo il tavolo accanto, Crystal, dopo avere messo sotto il mio naso il panino e un'altra bibita fresca.
«Non immagini quanto.»
Con il pollice indica alle sue spalle, fuori. «Chi era quel bel ragazzo in giacca e cravatta con cui parlavi? Non sembrava una conversazione amichevole.»
Come non notarlo? Era davvero vistoso. L'abito costoso, la camicia bianca tutta abbottonata, stirata alla perfezione, la cravatta bene annodata, le mani curate con le vene in evidenza che sembravano scolpite nel marmo, quell'orologio quanto un mestolo, gli occhiali firmati. Quella fragranza, il profumo Dolce&Gabbana emanato dalla sua pelle, che mi raggiungeva come un vento improvviso.
E poi ancora l'uomo al suo fianco, pronto a proteggerlo, a fargli da scudo con il suo corpo. Direi che è impossibile non accorgersi di uno così.
«Non so il suo nome ma a quanto pare era ricco e pronto a farmi arrabbiare. Sai che ho tanta pazienza di solito con le persone, soprattutto con quelle che si credono il Dio sceso in terra.»
Crystal, capelli legati in una coda alta, dalle sfumature oro, cerchi alle orecchie argentati, rossetto lucido su labbra carnose e occhi allungati marroni simili al cioccolato, sorride sedendosi davanti a me. Incrocia le braccia guardandosi un paio di volte intorno per assicurarsi di non avere dimenticato niente.
Il locale in questo momento è tranquillo, pulito e in ordine. Attorno c'è odore di frutta fresca appena spremuta e muffin.
Le pareti del locale sono color tortora chiaro. I mobili si abbinano perfettamente allo stile classico del posto.
«Che cosa è successo? Stavo pulendo i tavoli qui fuori quando ti ho vista dare in escandescenza.»
Non siamo amiche io e lei ma ci vediamo spesso. Sono anni che vengo in questo locale. Ho visto cambiare proprietario ma il mio tavolo è sempre rimasto lo stesso, all'angolo, lontano dalle porte e dalle entrate, accanto alla vetrata. Lei ci lavora da circa tre anni e i vari proprietari non hanno mai cambiato personale perché sono persone entusiaste, attente, gentili e sempre sorridenti.
«Diciamo che si è comportato da gran cafone per non dire da bastardo. Mi ha anche fatto fare una pessima figura con i Miller. Sono loro che finanziano il progetto e non posso permettere che mi tolgano l'incarico solo per avere avuto una discussione con uno stupido figlio di papà.»
Crystal recupera una bottiglietta d'acqua. «Davvero? Non aveva l'aria da cafone, anzi.»
«L'abito non fa il monaco. Quello lì aveva qualche problema, fidati.»
Ride. «Non ti ho mai vista così agguerrita. Deve proprio averti stuzzicata se sei partita per la tangente.»
Faccio una smorfia. «Già, ha toccato il mio orgoglio, le mie piante, il mio lavoro. Mi ha fatto fare la figura della stupida e non contento si è portato via una pianta e un bracciale che doveva essere messo all'asta di beneficenza. Come dire di no ad uno che strappa un assegno?»
Crystal mi avvicina il piatto con il panino su cui ha anche messo delle patatine come contorno e due vasetti con ketchup e maionese.
«Mangia e fregatene. Tipi come lui puoi divorarli a colazione. A proposito, come sta Nolan? Non lo vedo da un po' da queste parti. Tutto bene con lui?»
Sorrido anche se in modo triste. «Bene, torna proprio questa sera dal suo viaggio di affari e verrà a trovarmi. Mi toccherà passare il pomeriggio a restaurarmi per essere impeccabile.»
Addento il panino mangiando voracemente. È buonissimo e, per un momento allevia ogni sensazione provata fino a questo momento. Soprattutto adesso che sto pensando al mio ragazzo. Mi agita sempre vederlo o stare con lui.
Crystal beve un sorso d'acqua. «Da quanto state insieme?»
«Quattro anni.»
I suoi occhi si accendono di curiosità. «Davvero? È... tanto per due ragazzi così giovani!»
Annuisco. «Si, stiamo bene insieme. È un bravo ragazzo», mugugno, pulisco le dita e le labbra.
Crystal scruta nei miei occhi. «Bravo, che cosa bizzarra da dire. Non hai detto che lo ami da impazzire come farebbe chiunque urlandolo al mondo.»
Alzo le spalle. «Non sono una che esterna molto quello che prova. Non sono espansiva, ma questo puoi ben vederlo.»
Piega la testa di lato. «Ma ami il tuo ragazzo, vero?»
Perché queste domande? Mi sento messa alla prova. Per la prima volta una persona estranea mi sta mettendo alle strette con una sola domanda.
Amo Nolan?
Sono anni che me lo chiedo anch'io. La risposta è: non so quello che sto facendo. Semplicemente, mi sto lasciando trascinare dalla corrente.
«Certo, ma non sono una di quelle che glielo ripete di continuo. Non gli sto attaccata come una cozza e non lo soffoco. Ognuno ha i suoi spazi, i propri amici...»
Crystal corruga sempre di più la fronte. «Hai avuto un attimo di esitazione prima di rispondere. So riconoscere quando qualcuno mente o è insicuro. Che cosa non va in lui?»
Inumidisco le labbra, bevo in fretta un sorso di te', rischio di strozzarmi, tanta la foga. Come ha fatto a capirlo? È così evidente?
Nolan non ha un carattere facile da tollerare. A volte mi domando come abbia fatto a conquistarmi. Forse ero debole e triste in quel periodo e lui ne ha approfittato per affondare le sue grinfie sul mio cuore.
Sento le guance prendermi fuoco. «Non te lo so spiegare. Penso di amare Nolan ma ci sono troppe cose che non combaciano tra di noi. Siamo diversi in tutto e il fatto che lui se ne vada per settimane intere per lavoro, cosa che succede da qualche mese ormai, non giova al nostro rapporto.»
Crystal annuisce, come se sapesse quello che intendo. «Hai provato a parlarne con lui?»
Nego. «È praticamente impossibile farlo. Quando provo a parlargli mi liquida con qualcosa di breve o parla di sé. Non mi affronta, non mi lascia mai scegliere. Non vede che ci sono volte in cui mi piacerebbe che mi chiedesse come sto, quello che ho fatto, quello che voglio e non...», sospiro, smetto di gesticolare abbassando le mani. Le stringo in grembo talmente forte da sentire dolore. In questo modo, smetto di agitarmi.
Che diavolo mi sta succedendo oggi? Sono davvero così stressata da perdere la testa?
Crystal posa la mano sulla mia dopo averla afferrata per scioglierla dalla stretta. «Tesoro, non devi vergognarti. Anch'io ho dei problemi con mio marito. Sto con lui da quindici anni.»
La guardo un momento non trovando le parole adatte da dire. «Davvero?»
«Si, evita sempre le discussioni. Quando mi vede nervosa esce e va a bere con gli amici lasciandomi sola. L'unico momento in cui mi sento meglio è quando sto qui insieme ad altre persone. Ma lo amo da impazzire perché è sempre stato lui l'uomo della mia vita. Anche se mi fa incazzare.»
Stringo un tovagliolo di carta. «E che cosa fai qui per calmarti a parte lavorare?»
«Parlo con le persone, le ascolto. Mi rendo conto che la mia vita non è poi così disastrosa come penso e quando torno da lui lo abbraccio e facciamo pace. Anche se il giorno dopo ricomincia tutto da capo.»
Ci guardiamo un momento e poi ridiamo. «Grazie per avermi ascoltata», dico. «Non capita spesso che qualcuno sia davvero disposto a farlo.»
«Quando vuoi mi trovi qui. Lo sai. Possiamo sederci, mangiare qualcosa. Scegli tu.»
Mordo il labbro. «Secondo te è tardi per affrontare Nolan?»
Si fa di nuovo attenta. «Che cosa intendi fare?»
Scrollo la testa. «Non lo so. Una parte di me vorrebbe urlargli addosso, dirgli che non sono la sua ragazza solo quando torna dai suoi viaggi e mi porta a letto perché ne ha voglia.»
«E l'altra?»
«È brutto da dire quello che penso. Mi prenderesti per una persona orribile e voglio mantenere il primato di santarellina del locale.»
Sorride. «Si nota quando le persone sono cattive e marce dentro, Iris. Tu non lo sei. E se Nolan ti tratta male o ti trascura, rendigli le cose difficili o lascialo prima che sia tardi. Non puoi vivere accontentando sempre gli altri. Non puoi sempre mettere te stessa da parte per il bene delle persone. A volte devi pensare a te stessa, essere egoista almeno per un giorno.»
Guardo la donna che ho davanti con ammirazione. È la prima a darmi un vero consiglio dopo tanto tempo. Questo mi fa sentire meno sola, incoraggiata.
«Grazie, davvero. Io... non so che dire.»
Si alza. «Fa qualcosa per te stessa e riprendi il controllo. Non lasciare agli altri il potere di manipolarti. Adesso torno al lavoro. È stato bello chiacchierare con te. Non sei la solita ragazza ricca e snob che si vede qui in giro, non cambiare mai su questo.»
«Avranno scambiato le culle alla mia nascita. Altrimenti non si spiega come io sia nata così al contrario», replico per sdrammatizzare.
Ride. «Sono sicura che meriti quello che hai. Buona giornata, Iris.»
«Anche a te, Crystal.»
Poso una banconota sul tavolo ed esco fuori dal locale. La calura mi investe e fatico a prendere aria.
Il mio telefono squilla dentro la tasca dei pantaloncini e quando noto il numero sullo schermo rispondo in fretta alla chiamata, perché con il tempo ho imparato che potrebbe essere urgente.
«Mamma, che succede?»
«Tesoro, dobbiamo essere presenti ad un funerale. Scusa per il poco preavviso, l'ho saputo anch'io adesso. Ti mando a prendere, Bosh sarà da te tra quindici minuti, indossa qualcosa di nero e tacchi, mi raccomando, devi essere presentabile. Non è un funerale qualsiasi.»
Prima ancora che io possa aprire la bocca e rispondere, mia madre riaggancia.
Fisso incredula lo schermo del telefono, il suo numero sparire lasciando il posto al mio salvaschermo.
Carol Harrison non è mai stata una donna che si perde in chiacchiere. Dolce, premurosa e sincera ma in maniera incredibile: antisocial e dedita alla famiglia, all'apparenza che, nel nostro mondo pieno di soldi e potere, è tutto.
Rimango spiazzata e, non potendo dire di no alla donna che mi ha messa al mondo, corro verso casa dopo avere salutato tutti, ed essermi scusata ancora con i Miller.
Fermo un taxi e mi faccio accompagnare nel mio appartamento. Questo, si trova in una zona tranquilla di Miami, con la vista rivolta verso il mare e la spiaggia a pochi passi. Un posto incontaminato, pacifico e speciale per me.
Entro in fretta in casa spogliandomi. Apro le ante bianche dell'armadio a parete e non trovando niente di adatto, indosso un tubino bianco. Sento troppo caldo per vestirmi come una vedova disperata. Non conosco nemmeno il nome morto. Mamma, non mi ha detto niente. Nessuna delle sue lunghe informazioni per fare colpo, non ha fatto nessun commento sulla famiglia. Era persino agitata.
Mi ha solo chiesto di indossare qualcosa di appropriato, lo so, ma come al solito io non ascolto e non ho tempo per cercare indumenti che non ho mai usato. Andrà bene anche il bianco, che cosa potranno mai dire ad una sconosciuta?
Slego i capelli pettinandoli e non sentendomi a mio agio perché sembrano solo arruffati, creo uno chignon ordinato sulla testa. Cerco un paio di tacchi aprendo l'anta dell'armadio e li indosso prima che qualcuno suoni il campanello.
Ovviamente Carol Harrison odia i ritardatari, ma in questa occasione spero possa perdonarmi, perché ho bisogno ancora di qualche minuto. In fondo, sono stata avvisata senza preavviso.
I miei piedi chiedono subito pietà. Sono poche le volte in cui indosso i tacchi e tutte quante per mettermi in posa per delle stupide pubblicità o per le foto di famiglia che andranno sui giornali.
Sbircio dalla finestra e l'auto è già arrivata con Bosh che se ne sta fuori dall'auto con una sigaretta tra le labbra. Almeno lui non sembra agitato o di fretta.
Guardo le scarpe di tela bianche all'angolo della mia stanza per un lungo momento. Loro guardano me, chiedono ai miei piedi di non fare cazzate.
Scalcio i tacchi indossandole, sentendomi a mio agio. Sono bianche con i bordi intrecciati beige, estive, ma si abbinano al vestitino bianco che, non è poi così scollato ma mostra comunque uno spacco sul davanti e il mio seno sodo che, qualche anno fa non avrei mai mostrato così tanto.
Esco fuori e l'autista di mamma, un uomo sui quarant'anni, gigantesco, autoritario e che non sorride mai, mi saluta brevemente con un cenno del capo.
«Signorina.»
Non dice nient'altro, non commenta e non mi redarguisce sul mio pessimo abbigliamento. Sa come sono fatta e forse, spera proprio di vedere uno dei miei spettacoli. Purtroppo per lui, oggi non ho nessuna intenzione di infangare il nome della mia famiglia. Non sia mai che succeda ad un funerale di un'altra famiglia potente quanto la nostra.
Il viaggio dura poco più di dieci minuti. Dalle spiagge di Miami, ci spostiamo in un posto immerso nel verde, nella natura, con il sole caldo a mandare i suoi raggi ovunque, a creare ombre sulle montagne. Superiamo un cancello con la scritta: "Villa Ford".
Quando l'auto si ferma sul vialetto, mi ritrovo davanti una enorme villa baronale. Impossibile descrivere la bellezza del posto così spazioso e mastodontico da lasciare a bocca aperta.
«Non hanno proprio badato a spese», mormoro, scendo poi dall'auto e continuo a fissare le finestre alte, i cespugli intorno, il labirinto a pochi passi.
Mamma mi aspetta davanti all'enorme portone, sotto una tettoia di cemento e marmo sorretto da due spesse colonne in stile classico.
Indossa un tailleur rigorosamente nero, un cappello enorme, tacchi vertiginosi e occhiali da sole che toglie non appena nota come sono vestita. La palpebra le trema. La testa si muove in un lento "no" che silenzioso, unito al suo sguardo, mi fa comprendere quanto sia arrabbiata.
La supero, o almeno così penso di fare, e mi ferma per un braccio. I suoi occhi castani mi immobilizzano, mi ammoniscono ancora prima delle parole. «Almeno comportati con gentilezza, Iris. Non siamo qui per scherzare, per metterci in ridicolo o per fare parlare male di noi, della nostra rispettabile famiglia. Siamo qui anche per affari.»
Scrollo la sua presa dal mio braccio. «Ok, mamma, tranquilla, non vi metterò in ridicolo in alcun modo. Adesso fammi entrare, devo esprimere il mio dispiacere alla famiglia di cui non conosco niente perché mi hai chiamata mentre stavo lavorando.»
Mamma lascia la presa guidandomi dentro la villa. «Ti prego, Iris», ripete a denti stretti. «I Ford sono potenti. Fa il tuo dovere verso la signora Hill e andrà tutto bene.»
Alzo gli occhi al cielo superando il portone aperto. Mi ritrovo in una ampia e ariosa entrata, il pavimento di marmo bianco fa da sfondo con una decorazione centrale alle due scale che si uniscono all'apice, a forma di ghirigoro di un colore scuro, marrone e caramello che si trova sotto un tavolo di vetro e ferro battuto con al centro un vaso di fiori, troppi e ammucchiati tra loro.
Le dita mi prudono. Vorrei tanto dividerli. Vago ancora con gli occhi meravigliata. Noi non abbiamo mai voluto vivere in un ambiente simile, pur avendo una villa di famiglia antica e grande come questa, i miei hanno preferito i grandi appartamenti in città.
Questo ampio spazio in cui mi trovo, conduce al piano superiore grazie alle scale e, ad un salone ampio e spazioso, pieno di persone che si ammassano a gruppi, cibo e vocio.
Ci sono così tanti mobili e tanta ricchezza da stordirmi. Non mi sento ad un funerale ma ad una festa, forse di liberazione.
Avanzo con una certa sicurezza che non vacilla neanche quando iniziano i bisbigli alle mie spalle.
Al centro della stanza dalle pareti color avorio, anche queste tappezzate di quadri e cimeli rari senza mai cadere nell'eccessivo, poco più avanti di un camino, un quadro raffigurante un uomo anziano dall'aspetto austero, due vasi di fiori ai lati, una candela accesa sotto. Ai miei occhi, Archibald Bayle, come da scritta su una targhetta in oro, era: un bastardo con i soldi che gli uscivano persino dal buco del culo, apparentemente enorme.
Ecco perché tutti stanno sorridendo, mi dico. Be', tutti eccetto una donna che se ne sta seduta su una poltrona con gli occhi puntati verso la finestra. Guarda il giardino che si intravede proprio da questa, aperta e con la tenda che svolazza ad ogni movimento, con lo sguardo perso chissà dove.
Lei deve essere la moglie del defunto. Nessuno ha la stessa espressione in questa stanza.
Avanzo verso di lei. Mia madre, affiancata da mio padre che spunta dal nulla senza neanche salutarmi, mi guida proprio verso questa che, a quanto pare è davvero la vedova del maiale raffigurato in quella foto.
Alza la mano piena di rughe, le unghie coperte da uno strato di smalto rosso con dei fiori decorati sopra, un bracciale pieno di diamanti al polso e un anello enorme sull'anulare a mandare bagliori ovunque. Le porgo la mia che stringe senza forza. Fa lo stesso con i miei genitori.
Dando una breve occhiata ai presenti, tra questi non vedo i miei fratelli. Passo in fretta alla conclusione che sono impegnati altrove e mia madre, furba e calcolatrice come sempre, deve essere stata obbligata a chiamare proprio me all'ultimo minuto, perché crede che io sia l'unica a non avere niente da fare.
Stavo aiutando dei ragazzi con problemi seri e lei mi trascina in questa villa e per che cosa? Per un funerale? Davvero?
Mi sento presa in giro, sottovalutata. Mi sento intrappolata.
Quasi sicuramente c'è sotto qualcosa. Mia madre non organizza in breve il mio trasporto senza un doppio fine. Ha anche parlato di affari.
«Condoglianze, signora Hill.»
«Grazie.»
Solleva gli occhi, mi osserva soffermandosi sul mio vestitino bianco. Non fa alcun commento carico di disprezzo. «Scusami se te lo chiedo ma tu chi sei?»
«Sono Iris Harrison, signora Hill.»
I suoi occhi scuri saettano nei miei. Non mi stanno giudicando, mi stanno solo ponendo innumerevoli domande. «È un piacere fare la tua conoscenza, anche se in una brutta circostanza», porta il fazzoletto sotto le palpebre dove non escono lacrime. «Avevo sentito dire che gli Harrison avevano anche una figlia femmina. Sei davvero bella.»
I suoi occhi scuri sono arrossati, così anche le narici. Per il resto è una bellissima donna sui sessant'anni. Capelli bianchi in ordine e a nido, pelle curata con qualche macchia, trucco impeccabile sul viso pallido e magro, fisico asciutto coperto da un abito nero. Diamanti alle orecchie e al collo.
«Mi dispiace per la sua perdita, signora Hill.»
Stringe ancora la mia mano. «Non era un brav'uomo, ma amava la sua famiglia e avrebbe fatto di tutto per proteggerla», dice girando il viso verso la finestra. «E non ho mai voluto il suo cognome proprio perché non volevo farne parte, della sua famiglia intendo. Adesso che non c'è più però, penso che mi mancherà la sua voce, il suo pessimo sarcasmo e molte altre cose. Nessuno sa che eravamo separati da tempo, ma ho fatto il mio dovere di moglie dandogli dei figli. Harriet ha organizzato tutto questo nella sua villa. Suo padre non era neanche buono con lei.»
I miei genitori si fermano. Non sanno che dire. Infine, è mia madre a sciogliere il ghiaccio. «Signora Hill, ci dispiace tanto per la morte di Archibald. Lo ricorderemo con affetto.»
La donna si volta, li osserva, apre la bocca poi la richiude. Infine abbassa la testa facendo loro un cenno di gratitudine. «Le dispiace se le teniamo un po' di compagnia? Ci piacerebbe parlare con lei e con suo genero.»
La donna, sembra rianimarsi e in breve inizia a parlare del marito poco prima di chiamare un uomo.
Approfitto della loro distrazione per spostarmi verso il tavolo allestito all'angolo del salone colmo di gente e vocio, pieno di bicchieri di champagne e vino pregiato. Dall'altro lato, piatti che non sta toccando nessuno. Uno spreco.
Noto come mi fissano delle ragazze riunite in gruppetti di cinque, ma proseguo imperterrita ignorandole. Non ho paura, i pregiudizi non mi spaventano, mi scivolano addosso. Non è difficile capire quello che quasi sicuramente stanno dicendo sul mio conto. Mi hanno riconosciuta. "Si, sono io", vorrei tanto dire ad alta voce.
Prendo un bicchiere di champagne e un sandwich spostandomi verso l'entrata.
Giro intorno alzando il viso, osservando l'enorme candelabro di cristallo e oro che pende dall'alto.
Incuriosita, salgo i gradini di una delle due scale che si uniscono di sopra in una sorta di balcone che si affaccia sul soggiorno. Ammiro i dipinti presenti e disposti ordinatamente l'uno dietro l'altro.
Bevo un sorso di champagne salendo ancora gli ultimi gradini. Davanti a me c'è un altro quadro del defunto e mi fermo ad osservarlo.
Occhi porcini scuri, sguardo carico di arroganza e presunzione, capelli bianchi intorno ad aureola, abito di sartoria blu con una cravatta rossa, sguardo da vecchio maniaco.
«Eri proprio un egocentrico del cazzo, vero?», sorrido. «Ad occhio e croce anche un maniaco, vista la presenza di tutte quelle cameriere in lacrime. Neanche tua moglie piange così tanto la tua morte.»
«Direi più un bastardo pieno di soldi, senza rispetto, un porco e un razzista. Dovevi proprio conoscerlo. Ti avrebbe palpato il culo per iniziare.»
Mi volto di scatto e impallidisco. Il mio cuore subisce una variazione nel battito cardiaco ma si riprende dopo un attimo di silenzio dentro la gabbia toracica.
Trattengo il fiato poi lo lascio andare schiudendo le labbra, quando mi rendo conto di avere l'egocentrico della pianta proprio davanti a me.
Che diavolo ci fa lui qui?
«Ancora tu?», sbuffo, più che irritata di rivederlo così tanto presto. «Incredibile!»
Non avevo ancora smaltito la rabbia provata solo qualche ora prima e adesso eccola che ritorna ad infiammarmi il corpo.
Alzo gli occhi al cielo e riprendendomi dallo shock scendo le scale. Devo andarmene da qui.
«Non vuoi sapere com'è morto il vecchio?»
«Sinceramente no, non mi importa. Non lo conoscevo nemmeno. Sono qui per colpa di mia madre.»
Si avvicina. Il suo profumo, ancora una volta, mi avvolge circondandomi come una nebbia di fumo denso, in grado di farmi sentire su di giri.
«E io per colpa della mia. Perché non farci compagnia?», tira da dietro la schiena una bottiglia che stappa con un gesto del pollice senza versarne fuori una sola goccia. «E condividere insieme un po' di champagne costoso, pagato in onore di un vecchio maniaco, a quanto pare morto sul letto della sua amante mentre se la scopava?»
Alzo il mio calice nascondendo un sorriso. È molto diretto, una cosa che posso anche apprezzare. Il resto però sembra essere un disastro.
«Sono a posto così. Grazie lo stesso», scendo qualche gradino sfiorando il corrimano della scala.
«Gli ho dato un nome», alza il tono.
Mi fermo. Mordo il labbro e voltandomi lo guardo negli occhi. «A cosa?»
«Non fare finta di non avere capito. È irritante! Alla pianta, ho scelto un nome.»
Stringo le labbra. «Buon per te», replico, con indifferenza scendo il resto dei gradini ed evito di guardarlo mentre beve dal collo della bottiglia standosene appoggiato alla parete, accanto al quadro di quell'uomo morto che forse non conosce neanche lui.
Visto da questa angolazione, ha un fisico da paura. Deve allenarsi molto ed essere bravo in vari sport.
La mia mente mi regala l'immagine del suo corpo seminudo, sudato dopo una lunga corsa.
Che diavolo... Iris!
«Sei sempre così stronza?»
«Sei sempre così rompipalle?»
Solleva l'angolo del labbro. «Per natura direbbero "senza cuore", per essere precisi: "con un buco nel petto".»
Bevo un sorso, l'ultimo di champagne. Se voglio sopravvivere a questa giornata, ho bisogno di berne dell'altro. Sollevo il bicchiere nella sua direzione. «Be', ai buchi nel cuore e ai vecchi maniaci morti nel letto delle loro amanti con il culo al vento!»
Lo lascio lì impalato con una strana espressione stampata in faccia e, torno nell'ampio soggiorno luminoso, pieno di elementi decorativi e persone dove prendo un piatto, lo riempio di dolci e panini. Recupero un altro bicchiere e torno all'entrata. Mi siedo in uno dei primi gradini dell'altra scala e mettendomi comoda mi godo il silenzio, il cibo e lo champagne costoso che tra poco mi renderà meno imbronciata.
«Non vuoi sapere che nome ho dato alla pianta?»
Il ragazzo si abbassa sulle ginocchia, prende dal piatto un sandwich e lo addenta posando la bottiglia sul gradino prima di sedersi comodamente. Toglie persino la ghiaccia allargandosi la cravatta infastidito.
«No, non è più affar mio», mostro un sorriso finto e mi volto.
Non demorde. Non se ne va. «Bestiolina!»
«Come scusa?»
Sorride. «Si chiama Bestiolina, un po' come la padrona che me l'ha venduta.»
Le guance mi si infiammano. «Non stai dicendo sul serio. Non hai dato un nome del genere ad una pianta.»
Sorride. Sotto le palpebre gli si formano delle rughe che ammorbidiscono il suo sguardo freddo quando rilassa i muscoli facciali. «Perché? È bello!»
«Non è adatto ad una pianta!»
Soffia dal naso. «Lo è.»
Addento il sandwich con rabbia. Perché sto discutendo con un estraneo?
«Davvero? Spiegami come!»
«È una pianta come una palla, ha dei fiori azzurri sopra ed è piena di spine. Un ossimoro, quindi Bestiolina è una pianta spinosa e dura all'esterno e morbida dentro.»
Scuoto la testa. «È una spiegazione inutile e fa acqua da tutti i ponti.»
Gratta il mento bevendo un lungo sorso di champagne. «Perché? Sentiamo, come hai chiamato la tua pianta? E non mentire, avrai l'appartamento pieno.»
Apro la bocca e arrossisco. Sono incoerente e sto per scavarmi la fossa da sola pronunciando il nome che ho dato alla mia pianta. «Che ti importa?»
Sorride ancora in quel modo. Mi sale un certo fastidio addosso quando lo sfoggia con sfrontata sicurezza.
«Ti credi migliore, ma non lo sei. Anche tu sei una mocciosa ricca che crede di sapere tutto di tutti. Be', notiziona per te: "non sei migliore di nessuno", Bestiolina!»
Mi alzo. «Non mi sono mai sentita migliore di nessuno, ma una cosa l'ho fatta, essere me stessa e non dovermi nascondere dietro una facciata in base a chi mi trovo davanti», mi alzo. «Sai, sei come un buco nero, sei vuoto e arido dentro e risucchi qualsiasi cosa facendola sparire! Sei come una pestilenza!»
Detto ciò, mi allontano a passo spedito.
Mi avvicino ai miei genitori. Mia madre quando mi vede arrivare si alza dal divano. Parla ancora con la vedova e con un uomo che credo di avere visto da qualche parte. La signora Hill torna a guardarmi da capo a piedi con interesse. Mia madre invece, guarda tutti i presenti a disagio avvicinandosi.
«Dove eri finita?», chiede portandomi all'angolo della stanza.
«Io me ne vado!», replico annoiata e irata per l'incontro avuto con quel deficiente.
Sgrana gli occhi. Per poco non va nel panico. «Come? No, non puoi. Non è ancora il momento.»
«Perché non posso?»
«Perché dobbiamo sembrare...»
«Hai altri tre figli, mamma», sbotto a denti stretti. «Non puoi pensare che solo per il fatto che io mi occupi di altro, oltre agli affari di famiglia, non abbia niente da fare! Perché proprio io? Perché non Max o Steven o Austin?»
Stringe la mano sul mio braccio. «Iris, devi restare fino a quando te lo dico io», ordina guardandosi intorno. «Ho accettato ogni tuo capriccio negli ultimi anni dopo la scomparsa della tua migliore amica e adesso ti sto solo chiedendo di fare qualcosa per noi.»
Sbuffo. «Mi stai davvero obbligando a restare in mezzo a questa gente?»
Alza il mento. «Si. È la tua gente! Adesso mostra il tuo rispetto e non combinare guai.»
Mi lascia andare tornando dalla donna con cui parla pacatamente mentre mio padre, seduto a poca distanza, discute con alcuni uomini.
Notando una porta aperta, entro e mi ritrovo in una cucina piena di camerieri impegnati in un via vai continuo.
Alcuni stanno riempendo altri vassoi, ma nessuno sta mangiando niente.
«Quanto cibo sprecato», dico con disprezzo.
«Sono d'accordo!»
Sussulto posando una mano sul petto. Il mio cuore, ancora una volta, senza controllo inizia a battere forte. Così forte da avere paura che possa sentirsi anche all'esterno.
Non capisco perché debba farmi questo effetto. So solo che non va bene.
Bisogna tenere fermo il proprio cuore quando parte e batte forte verso un posto sconosciuto, perché, se lo lasci andare via, ben presto non riesci più a controllarlo, non riesci più a fermarlo, non riesci più a trovarlo.
«Vuoi smettere di seguirmi?»
«Non è colpa mia se ci troviamo nello stesso posto», replica con finta innocenza. «Siamo ad un funerale di un vecchio, che cosa ti aspettavi?»
Gli do le spalle e continuo a giudicare lo spreco di cibo senza dire niente, restando in silenzio. «Che tu te ne vada con quelle galline in fondo alla sala e mi lasci in pace, forse?», sbotto a denti stretti.
Non ascolta nemmeno le mie parole e affiancandosi mette le braccia conserte.
«Che cosa faresti con tutto quel cibo?»
Non rifletto neanche un istante. «Visto che non lo mangia nessuno lo distribuirei equamente anziché darlo in pasto ai maiali.»
Corruga la fronte. «Dove?»
Lo guardo male. «Dove? Tra i dipendenti, in qualche mensa per i senza tetto e le famiglie che ne hanno bisogno? In questa cucina c'è più cibo di un ristorante ed è vergognoso lo spreco, visto che nessuno tocca niente. Siamo ad un funerale non ad un ricevimento di nozze», sbotto e contrariata esco fuori ritrovandomi in un giardino bellissimo con al centro una piscina.
Rimango senza fiato e mi avvicino ai girasoli enormi che crescono davanti lo sfondo di un'edera rigogliosa che si estende lungo tutto il perimetro circondato da un muretto.
Cammino a braccia conserte ammirando il panorama. Se proprio devo rimanere qui, tanto vale esplorare la villa.
Scendo i gradini in pietra per ammirare il prato, la fontana e il campo da golf.
Sento dei passi dietro. Mi volto e quel tizio mi raggiunge con due bicchieri. «Seppellisci per qualche ora l'ascia di guerra, Bestiolina», esclama divertito. «E per la cronaca no, non mi scoperò una delle presenti. Sono un po' troppo... come dire... agitate come galline in calore e costruite, per avermi. Valgo molto di più.»
«Forse hai frainteso», replico drizzando la schiena quando si fa vicino. «Io non sono in guerra con nessuno, tantomeno con te. E smettila di chiamarmi in quel modo se non vuoi che ti chiami: "Stecca".»
«Ah no? Non sei sul punto di sbraitarmi addosso come questa mattina? Allora perché hai reagito male?»
«Perché non mi piacciono gli sbruffoni che credono di conquistare chiunque con un sorriso e un assegno.»
Incassa la frecciatina. Beve un sorso nascondendo il sapore amaro e vero delle mie parole dietro un sorriso. «Non mi conosci. Potrei essere l'uomo meno egoista del pianeta.»
«Del tuo pianeta, forse. Assassino di piante.»
In qualche modo trova divertente le mie risposte.
«Ok, ammetto di essere egocentrico ma chi non lo è? Non lo nascondo e non fingo di essere un santo come fai tu, Bestiolina.»
Mordo l'interno guancia. Sono pronta a replicare quando mia madre compare in giardino.
«Iris?»
Mi stacco da lui e la raggiungo.
«Possiamo andare», dice guardandolo nascosta dietro le lenti.
«Finalmente!», dico a voce un po' troppo alta.
«Ci si vede, Iris!», esclama quel cretino alle mie spalle.
Alzo il dito medio ma mia madre è più veloce e mi abbassa il braccio. «Iris», mi rimprovera.
«Che c'è? Lo meritava. Mi stava annoiando e seguendo come un maniaco.»
La seguo in auto. Qui, lei e papà non dicono niente per tutto il viaggio. Mi accompagnano a casa e se ne vanno in fretta.
In casa, mi spoglio e faccio un lungo bagno tranquillo togliendomi di dosso ogni sensazione provata a causa di questa giornata pesante e lunga.
Sto scegliendo qualcosa da mettere quando sento bussare alla porta.
Vado a vedere e trovo dietro un mazzo di rose, Nolan.
Prendo i fiori e mi avvicino a lui con un ampio sorriso. «Ciao», saluto. «Sei tornato!»
«Mi sei mancata», mugugna tra le mie labbra chiudendo la porta alle sue spalle con una spinta del piede.
«Anche tu», mi stacco andando a mettere i fiori dentro due vasi che sistemo uno sul bordo del camino e l'altro sul tavolo basso del soggiorno dove ci sediamo.
«Com'è andato il viaggio?», chiedo sentendomi nervosa.
«Bene. Ho avuto delle riunioni stressanti ma adesso, sono qui con te», dice attaccando il mio collo di baci.
Le sue dita sollevano l'asciugamano sulle cosce. Da questo gesto capisco cosa vuole ma, per la prima volta, mi rifiuto staccandomi da lui come se mi fossi bruciata.
«Anch'io ho avuto una giornataccia. Pensavo di cenare e poi andare a dormire, sono molto stanca. Ti fermi?»
Alzandomi mi sposto in cucina dove inizio a mettere ingredienti a caso sul ripiano del bancone.
Nolan mi studia un momento di troppo. Non so dire se quello che vedo sia dispiacere vero o irritazione per il rifiuto.
Sorrido in modo dolce attendendo una sua risposta. Mi fermo, lo osservo trattenendo il fiato.
Mi chiedo perché cerchiamo una carezza da chi non ci guarda neanche negli occhi. Mi chiedo perché cerchiamo una piccola attenzione da chi non sa riconoscere i nostri sorrisi finti. Mi chiedo perché cerchiamo un bacio sulle cicatrici da chi non sa riconoscere le nostre ferite, quelle che si sono chiuse da sole nel tempo, ma che fanno ancora male.
Mi chiedo perché non siamo in grado di riconoscere in fretta la vera natura delle persone. Mi chiedo perché, pur sapendo che non ci saranno carezze date con amore, sguardi rubati con dolcezza, e abbracci stretti pieni di protezione, rimaniamo lì ad aspettare. E mentre aspettiamo, perdiamo tutto il resto, perdiamo l'amore. L'errore non è chiedere, non è dare o dimostrare. L'errore non è amare, non è rinunciare. L'errore è offrire il proprio cuore a chi non lo vuole.
Nolan mi fissa ancora. «Si, certo», risponde con freddezza prima di alzarsi e raggiungermi in cucina.Iris ♥️
Nolan ♥️
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L'Asso di cuori
Romance«Tutti vogliono entrare almeno una volta nella vita in quel club, Iris. Sai quante persone hanno questa possibilità? E sai che cosa significa questo invito? Conoscerò finalmente il volto del famoso "Asso di Cuori". E non ho neanche dovuto faticare p...