Capitolo undicesimo

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Notte maledetta, notte di buio e di paura. Non riusciva a dormire, James. Cercava di richiamare alla memoria cosa avesse fatto di particolare la sera precedente. Forse non aveva seguito le sue consuetudini e questo aveva portato a uno scompenso, un mancato equilibrio tra le parti. Forse era per qualcosa di strano che era successo la notte precedente che era poi caduto dalla scopa. Forse per questo era poi caduto. Ma non erano le sue preoccupazioni a tenerlo sveglio, anzi, sentiva pesargli sulle spalle la fatica di quella giornata infinita e tutto quello che voleva in quel momento era addormentarsi, lontano dai pensieri suoi e di tutti. Chissà se qualcuno lo avrebbe sognato quella notte, magari mentre gli soffiava anche senza troppa fatica il boccino da sotto il naso durante una partita, magari addirittura uno che a Quidditch non ci giocava neppure. Non sapeva neppure che sentimenti gli provocasse quel pensiero. Non sapeva neppure se voleva risalire su una scopa un'altra volta. Forse, come si sussurrava, non era davvero più il giocatore che era stato. Forse non aveva neppure senso provare a tornarlo. Il suo momento d'oro era finito, ora lo aspettava solo l'inesorabile declino. Ma, per questi pensieri aveva avuto tutto il pomeriggio. Ora era rimasto solo il dolore a tenerlo sveglio. Era così acuto da rendere impensabile solo l'idea di prendere sonno. L'infermiera lo aveva avvisato che la pozione impiegava 24 ore a mettere a posto la mano e che proprio le ultime sei erano le peggiori. L'intero braccio fino alla spalla sembrava staccato dal corpo stesso. Delle fitte arrivavano ad irradiarsi anche nella schiena rendendogli impossibile stare disteso. Troppo dolore per un corpo così debole. Decise di alzarsi dal letto. Aveva paura di svegliare i suoi compagni di dormitorio con un gemito non trattenuto, e l'ultima cosa di cui aveva bisogno, era la compassione. Si rifugiò in bagno, il suo posto sicuro. Una grande finestra si apriva a lato del water. Nei giorni migliori dava una certa soddisfazione assolvere ai propri bisogni fisiologici mentre si guardava cosa succedeva giù nel giardino e sul Lago Nero. Questa notte però un temporale infuriava su Hogwarts e il vento ululava attraverso gli infissi instabili delle finestre. C'era freddo nel bagno, e grossi chicchi di grandine rimbalzavano contro il finestrone. Durante il suo spostamento letto-bagno, James dovette reggersi alle pareti, a quanto pare anche se si era infortunato solo la mano, tutto il suo corpo pareva risentirne. Abbassò con le mani tremanti la tavoletta del water e si sedette sopra. Si abbandonò senza forze contro la cassetta dello scarico e la sua testa scivolò indietro fino a toccare la parete. Passò qualche istante a occhi chiusi, fu il boato di un tuono a farglieli spalancare di colpo. Sentì dei brividi unirsi alle fitte nella schiena. Uno spettacolo mostruosamente bello si aprì ai suoi occhi. Il cielo si illuminava a giorno prima di ricadere nel buio più profondo. Gli si mozzò il fiato in gola quando un fulmine si ramificò magnificamente sopra il Lago. E poi di nuovo giorno, di nuovo notte, di nuovo radici che tagliavano a metà il cielo. Un sentimento di piccolezza lo avvolgeva, lui era nulla rispetto alla natura che sfogava il suo dolore. Chicchi di grandine grandi come sassi continuavano a colpire la finestra e James non poté che paragonarli alle dolorose pulsazioni della sua mano. Dietro il Lago gli alberi della Foresta Proibita erano piegati dal vento implacabile. I loro rami che si spezzavano erano poi gli stessi che si illuminavano nel cielo. Impotente al suo dolore e alla potenza che si scatenava a un vetro di distanza da lui, James sentì la sua fronte imperlarsi di sudore freddo, quasi da febbricitante. Tremante, si alzò, nel cielo bagliori cristallini si susseguirono prima di lasciare il posto solo all'ululare del vento. Si appoggiò al vetro con le mani e poi con la fronte. Era gelido e dalle fessure delle saldature, refoli di vento gli solleticavano la pelle. Ma lo spettacolo che si estendeva sotto di lui era così maestosamente bello che neppure il dolore diffuso in tutto il corpo e le gambe molli, l'avrebbero fatto allontanare da quella finestra. Un fulmine più luminoso e ramificato degli altri illuminò il cielo all'improvviso. James seguì la sua corsa velocissima. Gli occhi annasparono alla ricerca del punto in cui moriva. Ma già uno nuovo si gettava nel cielo da dove James sapeva esserci il campo da Quidditch. Sorrise contro il vetro per la prima volta dopo tanto. Con gli occhi spalancati che cercavano di cogliere ogni flessione dei fasci luminosi sognò vividamente di sfrecciare veloce in quel cielo cupo e tremendo. In quel momento lui non era attaccato alla finestra del bagno del dormitorio, ma in alto tra le folate di vento, a cavalcare una saetta. Sfrecciava veloce, senza farsi portare via dalle folate. Nulla, neppure il gelo e la paura di fronte a quello spettacolo della natura, lo potevano sbalzare giù. Il suo fulmine gli indicava il cammino in mancanza della seconda stella a destra, affogata nel buio. Nella mano destra stringeva la grandine. Chicchi anormalmente grandi gli sgusciavano tra le dita e gli gelavano il palmo, ma anche quando si trovava a stringere uno soltanto, afferrarne di nuovi, in mezzo a una tale tempesta, era facile. Il freddo del ghiaccio piuttosto che fargli storcere le labbra, lo faceva urlare dall'euforia. La sua caccia nel vento era ricominciata. Sentì una scarica di adrenalina scaricarsi da un fulmine direttamente nella sua spina dorsale. Il suo sorriso abbracciava la notte, più ampio che mai. Delle lacrime di gioia scivolavano sotto gli occhiali lungo le guance, ma venivano asciugate dal vento che lo avvolgeva. Si gettò a capofitto verso il Lago Nero con la pioggia a fargli da mantello. Urlò a pieni polmoni e aprì la mano destra. La grandine gli sfuggì dal palmo e andò a bucare la superfice dell'acqua. Stese la mano in avanti mentre riacquistava quota, come a voler afferrare una stella nascosta dietro le nuvole. Il cuore galoppava follemente, le sue ali si aprivano in un folle volo e lui planava tra gli elementi naturali. Tremava di gioia e di pienezza. Questo era il suo destino. E in quel momento, mentre si tuffava tra le luci del cielo in tempesta, James era veramente vivo.

La mattina dopo a svegliarlo fu una luce soffusa e il freddo che gli penetrava nelle ossa. Lentamente aprì gli occhi e scoprì di essere accovacciato sul pavimento del bagno, schiacciato tra la finestra e il water. Probabilmente la notte precedente era finito per sedersi sul pavimento e si era addormentato lì. Si stropicciò gli occhi sollevando leggermente gli occhiali. Poi si alzò e, dal momento che ormai era già in bagno, si lavò la faccia. Solo quando si guardò allo specchio a figura intera appeso alla porta del bagno, vide la sua mano. Sembrava a posto, solo dei rimasugli di sangue incrostato rendevano la vista raccapricciante, ma non c'era nessun osso al posto sbagliato né carne viva che doleva solo alla vista. Si sistemò meglio gli occhiali, per essere certo che non fossero i suoi occhi ancora gonfi di sonno che gli facevano vedere ciò che voleva lui. Ma non sembrava. Lentamente, come intimorito di spezzare qualcosa facendo movimenti bruschi, piegò le dita. Nulla, reagiva come al solito. Girò allora il polso e mosse le dita in una danza silenziosa. Tutto sembrava normale, come se la sua mano non si fosse mai svegliata la mattina precedente. Come se nulla le fosse mai successo. Gli eventi della giornata precedente sembravano non averla mai sfiorata. Ritornò dal lavandino e solo mentre scrostava il sangue secco si ricordò che, in effetti, quella mattina, la mano l'aveva già usata prima per strofinarsi gli occhi, e poi per lavarsi la faccia, e non se ne era reso neppure conto. Emozionato guardò il suo volto riflesso nel piccolo specchio sopra il lavabo. Le labbra erano congelate nell'accenno di un sorriso e tremavano leggermente. Fuori dalla grande finestra si affacciava una mattina uggiosa ma asciutta. La mattina della redenzione di James Sirius Potter.

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