5. Primo giorno, prima vita.

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Occhi grandi e di un verde spento, capelli lunghi, mori, con qualche ciocca più chiara. Il viso stanco, le labbra piccole ma piene, il naso storto, le guance arrossate.
Il vecchio specchio davanti a me mostra la mia figura che continua a cambiare. Emozioni, ricordi e immagini che tanto mi tormentano non passano inosservate neanche all'esterno. Provo a non pensarci ma ogni volta che mi guardo lo rivedo. Non potevo essere come mamma? Bella, con le gambe che le slanciano la figura e che la rendono così giovane e sicura di sé. È come se il destino avesse fatto tutto per farmi soffrire. Possibile che ogni cosa che faccio mi si ritorga contro?
Prendo il primo oggetto che mi capita e lo tiro in centro allo specchio creando delle grandi crepe, impedendo così che qualcuno possa ancora vedersi. E continuo, con qualsiasi cosa mi passi per le mani. Appoggio il vaso che stringevo tra le dita sulla sedia, sperando che non ceda anche questa volta, e mi siedo su un angolo del piccolo letto. Mi prendo la testa tra le mani e chiudo gli occhi, sperando che questa vita sia solo un brutto incubo. Nessuno in questa casa si è accorto che sto per scoppiare come una bomba, come una persona stufa di dover sopportare tutto ciò.
Sento il telefono vibrare accanto a me, segno che almeno quello non l'ho distrutto.
«Pronto?» mormoro a bassa voce, afferrandolo. D'altronde sono solo le sei di mattina.
«È così che si risponde alla propria migliore amica?». Appena sento la sua voce ovattata e acuta, sussulto di sorpresa.
«Ivy?»
«Ma buongiorno, fiordaliso! Sei per caso finita su Marte?» urla, dall'altra parte della cornetta.
In effetti, ho dimenticato di riverarle un piccolo dettaglio.
«Ehm, tipo. Scusa, me ne sono completamente scordata.» le rispondo, coprendomi gli occhi.
«Sono venuta a sapere del tuo temporaneo trasferimento dalla bidella, ma scherziamo!?» urla.
«Primo: è mattina, non urlare! Secondo: come faceva quella vecchia scorbutica a saperlo?»
«Non è questo il punto! Quando pensavi di dirmelo?»
«Presto...credo. Anche Aaron è arrabbiato con me, giusto?»
«Ma secondo te? Sono furioso, stronzetta!» mi risponde una seconda voce molto roca.
«Scusatemi, davvero. È tutto un casino.»
«Quando possiamo venire a trovarti, Isa?»
«E con cosa? Con un aereo? Sono 5 ore di viaggio in macchina, superando i limiti. E voi non siete maggiorenni, quindi fate due calcoli. Sono intrappolata qui e fra mezz'ora comincerò a lavorare: la mia estate è già finita.»
«Eddai, non dire così! Ci organizzeremo, stai tranquilla. Ora dobbiamo andare, non dormiamo da ieri, non fare domande. Ti vogliamo bene, nanetta.» conclude Aaron.
«Anche io. Ciao.» tolgo il cellulare dall'orecchio e lo riappoggio a fianco a me.
Loro due sono i miei unici amici, non posso farci niente. Li adoro, ma a volte tendo a isolarmi da tutto e tutti... non so come facciano a sopportarmi.
Aaron è il più buono del trio, con i suoi capelli riccioluti neri, e pensa sempre al bene degli altri prima a quello di se stesso.
Ivy, invece, è l'esatto contrario. È astuta, vendicativa e talvolta troppo irrispettosa. Sa di piacere agli altri e non lo nasconde, quindi a volte tende ad essere un tantino vanitosa ed egocentrica. Il suo aspetto fisico conta più di qualsiasi cosa: a forza di piastrarsi i lunghi capelli biondi prima o poi le prenderanno fuoco.
Siamo tutti e tre diversi eppure stiamo ancora affrontando gli ostacoli della vita insieme.
Scuoto leggermente la testa e decido di alzarmi. Apro la mia valigia ancora da disfare e tiro fuori le prime cose che mi capitano in mano: pantaloncini corti della tuta e una semplice t-shirt monocolore.
Apro la porta e mi avvio verso il piccolo bagno: questa stanza sembra abbia vissuto entrambe le guerre mondiali, tanto che la doccia sembra crollare da un momento all'altro. Entro dentro essa, cercando di non prestare attenzione a tutte le macchie, e apro l'acqua, che ci mette svariati minuti a riscaldarsi.
Prendo il primo shampoo che mi capita, e in cinque minuti sono già vestita e pronta per il mio primo giorno di lavoro.
Mi asciugo leggermente i capelli con un asciugamano e mi affaccio sul piccolo specchio sopra il lavandino.
«DAVE!»
Non ci posso credere: i miei capelli sono diventati rossastri, specialmente le ciocche più chiare.
Apro la porta e mi ritrovo Dave che ride a crepapelle sul pavimento, sdraiato, con le mani sulla pancia.
«Il più bel risveglio della mia vita!» biascica, piangendo dal ridere.
«Ma sei scemo?! Guarda i miei capelli, cazzo!» gesticolo, tirandogli un pugno sul braccio.
«Sembri una fatina!» mormora, continuando a ridere. Estrae il telefono e mi scatta rapidamente una foto.
«Elimina subito quella maledetta foto» ringhio.
«Aspetta, ti taggo?» e continua a sghignazzare.
«Sei un uomo morto, Dave Thomson!» urlo, buttandomi sopra il suo corpo.

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«Ti puzzano le ascelle», mi giro scioccata verso Dave e lo guardo mentre guida con fierezza il suo "bolide", una panda risalente al secolo scorso.
«Ma che?» lo continuo a fissare, con il fumo che mi esce dalle orecchie.
«Qualcuno doveva dirtelo» sghignazza, guardandomi, togliendo l'attenzione per qualche secondo dalla strada davanti a se.
«Sei uno stronzo»
«Sono realista, è diverso» mormora, con ancora il solito ghigno sulla faccia, per poi farmi un occhiolino.
«Mi sono lavata stamattina, a differenza tua, e sicuramente è meglio puzzare che non avere un cervello» dico, indifferente, girandomi verso il finestrino.
Adoro Dave, davvero, mi ha salvato da situazioni in cui non riuscivo neanche più a respirare, è la mia salvezza, ma negli ultimi mesi è strano.
Il suo velo ironico continua ad esserci, forse più di prima, ma non c'è più quel sorriso vero che mi illuminava la giornata.
Mi manca quella parte di lui e sono pronta a scoprire che gli succede, se prima riesco a capirmi.
«Puzzola, siamo arrivati. Benvenuta alla sede della Freeman.»
La sigla blu della ditta occupa tutta l'entrata dopo vi è appeso un grande cartellone pubblicitario che mostra il cambiamento di vita se si comincia ad usare i nostri integratori naturali.
«E cosa c'entra ciò con il calcio, scusa?» chiedo, incerta e confusa.
«È tutta una questione di soldi, Isa. Come tutto in questo mondo.» sospira, affranto, rivolgendo di nuovo lo sguardo alle porte scorrevoli.
«Domani comincerai con il vero lavoro, con la pratica. Sarai in campo e diventerai uno sponsor umano.» conclude, rivolgendomi uno dei suoi soliti sguardi d'intesa.
«Devo preoccuparmi?»
«Non posso assicurarti niente. Dai, entriamo.»

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