Atto II

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Era primavera, mi sembra. Io avrò avuto circa trent'anni e stavo preparando l'Amleto di Shakespeare. Mi ricordo bene quel giorno perché, oltre ai fatti che tra poco vi narrerò, cominciai a lavorare come regista teatrale.

Mi trovavo all'interno del Teatro Nazionale perché con la mia compagnia stavo facendo le prove generali dello spettacolo. Al termine di queste si avvicinò a me la direttrice dello stabile per invitarmi ad un ricevimento che avrebbe dovuto tenersi quella sera stessa. Come vi dicevo prima, le persone che mi circondavano sembravano restie ad intrattenere un qualsiasi tipo di rapporto sociale con me, per cui la cosa mi sorprese piacevolmente e accettai.

Il ritrovo si teneva in un grande locale della città. Quando entrai mi avvicinai a salutare la direttrice la quale, ricambiando, mi presentò Albert Pascal.

Mi risultò subito simpatico: era un uomo di estrazione colta per cui ci trovammo subito d'accordo riguardo alcune opere letterarie e teatrali. Parlammo tutta la serata e tornai a casa molto contento, dato che non mi era mai successo di intrattenere così a lungo una conversazione con un'altra persona.

Inizialmente l'averlo conosciuto fu per me una benedizione. Cominciammo a scambiarci idee riguardanti la messa in scena e perfino a collaborare insieme. Aveva quasi quindici anni più di me ma la differenza d'età non si faceva sentire più di tanto. Anche se ero io quello più celebre, più famoso, lui aveva molta più esperienza di me e, adesso che ci penso, direi anche molto più talento ma molta più sfortuna.

Fu una collaborazione proficua per entrambi: il fatto di cooperare insieme portava celebrità a lui e cultura a me.

I nostri spettacoli vennero sempre più richiesti, grazie anche alla nostra visione assolutamente innovativa della regia teatrale. Le repliche si moltiplicarono, così come la nostra celebrità e i nostri guadagni.

Lavorare con lui era straordinario ma non sempre molto semplice. Pascal aveva, come dire... alcune stranezze, forse giustificabili in quanto, si sa, un genio è quasi sempre una persona molto stravagante.

Aveva delle abitudini particolari, dicevo. Innanzitutto non voleva mai presenziare alle occasioni pubbliche. Non si faceva mai vedere alle conferenze, né alla prima messa in scena di uno spettacolo, né quando c'era da parlare alla compagnia. Mi disse che il ricevimento durante il quale ci eravamo conosciuti era stata per lui una sofferta eccezione.

Spesso avevo l'impressione che odiasse la gente. O meglio, che la temesse. Si rinchiudeva per ore e ore in casa, lavorava continuamente senza tregua, scriveva, ideava nuovi spettacoli scriveva su taccuini lacerati le sue teorie riguardanti la recitazione. Si riteneva più un teorico che un pragmatico, perciò la parte pratica, il più delle volte, toccava a me.

Non aveva consolidato i rapporti sociali, non era sposato, non aveva figli e non aveva amici. Io ero l'unico col quale si fosse mai davvero relazionato.

Lo vedevo pensare continuamente, rimuginare, rabbuiarsi all'improvviso.

Pascal alternava periodi positivi, nei quali la sua creatività era straordinariamente prolifica, a periodi negativi, nei quali evitava qualsiasi contatto con chicchessia. Non parlava, non mangiava, dormiva ore e ore. Insomma, stava chiuso in un'insormontabile bolla di apatia.

Fortunatamente però i periodi buoni erano più duraturi di quelli negativi e questo, oltre ad essere un bene per l'attività artistica che, come dicevo, raggiungeva incredibili vette quando Pascal era in forma, era anche un toccasana per la sua stessa autostima: tanto fragile nei momenti bui, quanto arrogante ai limiti del narcisismo nei periodi positivi.

Lavorare con lui era, ripeto, un'esperienza fantastica ma complicata. Non penso però di peccare di superbia se affermo che il nostro binomio fu uno dei più importanti di tutta la storia del teatro. Dite che sono egocentrico? Forse, ma di sicuro realista perché ciò che ho asserito non solo corrisponde a realtà, ma è altresì dimostrato dai continui successi ottenuti. Successo di pubblico, che accorreva a teatro con la stessa foga dei colombi quando si buttano sul mangime, e di critica, che in quegli anni ci assegnò i più importanti riconoscimenti cui dei drammaturghi possano aspirare.

La tosse dell'attoreWhere stories live. Discover now