Piccoli eroi - Martina Attili

67 19 7
                                    

Mi chiamo Martina Attili, ho diciotto anni e frequento la quarta superiore al liceo linguistico a Roma e basta, dopo quattro anni credo che queste siano le uniche caratteristiche, che i miei compagni di classe conoscano di me.
Loro non hanno mai provato a conoscermi, semmai hanno sempre presupposto, inventato, stereotipato.
Sono stata giudicata una "secchiona senza una vita sociale" perché vado bene a scuola, una vampira perché "sei talmente brutta a livelli troppo alti, ma, per forza, è perché non riesci a guardarti allo specchio", una fallita dalle false speranze perché "la cantautrice riesce a farla solo chi ha talento, non tu", un fantasma invisibile perché "sei talmente insignificante, che non ci accorgiamo nemmeno quando non sei a scuola, perché tanto è uguale, non fai la differenza".
Quattro anni che vengo tormentata da un interminabile persecuzione, da continue violenze verbali, che si infiltrano nella mia mente, come parassiti, e mi oscurano il cervello di false credenze e finti valori fisici e morali.
Razionalmente, riuscivo a comprendere che quelle cattiverie non corrispondevano ciecamente alla verità, il problema è che non mi davano modo di provare il contrario, perché mi tartassavano costantemente e non avevo la forza per contrastare tutto quello che dicevano, così, verso la metà del primo anno, iniziai a subire in silenzio, stremata ormai dalle loro parole.
Ero così piena dei pensieri degli altri, che aprivo bocca, ma non so cosa pensassi, aprivo il cuore, ma non sapevo cosa avessi dentro.
Mi sembrava di non vivere, mi sembrava di camminare, respirare, studiare, ma di essere morta dentro, tanto mi muovessi solo per automatismi e abitudine, ma non ci fossero stimoli, che mi aiutassero ad andare avanti.
Non avevo sogni, né desideri, né speranze, perché erano sepolte, ormai, con me, sotto a un chilometro di terra fredda e umida. Scusate se non viso dire l'ora esatta, in cui stavo per morire, ma non ce l'ho fatta.
Racconto e porto sulle mie spalle il peso di una storia vissuta di una vita da sopravvissuta, non viva, chiedendo e sperando nel lieto fine. Chiedendo e pregando per una fine o per l'inizio di qualcosa di buono, di qualcosa di nuovo, che mi facesse tornare a curvare in un sorriso le mie labbra piatte e a far battere il mio cuore oppure interromperlo, era uguale.
Ogni tanto inventavo di stare male e cercavo di convincere i miei genitori a farmi rimanere a casa da scuola, non per saltare verifiche o interrogazioni, ma per evitare i miei compagni di compagni.
Ero abbastanza convincente nella mia recita, tanto più che i genitori non sapevano che ero vittima di bullismo, così non sospettavano nemmeno che ci fosse un secondo fine nella mia richiesta: <<Buongiorno mamma, sai, ho mal di testa. Apri la finestra, che magari migliora. Non me la sento, no, non posso andare a scuola, forse è meglio se resto a casa da sola o, se vuoi, resta tu con me>>.
<<Non posso, devo andare a lavorare. Tu sei sicura che vuoi stare a casa da sola?>>
<<Sì sì, va tutto bene, cosa vuoi che possa accadere?>>, semmai il pericolo era andare a scuola, piuttosto che stare a casa.
<<Laura non viene a casa da un po', se vuoi può venire qua dopo scuola, così ti passa la lezione e vi divertite>>
<<Non penso, ha il corso di nuoto oggi>> non lo sapevo in realtà, ma lei non poteva tornare a casa, perché il mio bullo è suo amico adesso.
Sapevo che il veleno che avevo piena la testa era solo cattiveria e non corrispondeva alla verità, nella mia mente avevo un pensiero positivo, ma il pensiero negativo era la mia casa.
Mi dicevano che ero grassa, smettevo di mangiare.
Mi dicevano che ero brutta, basta respirare.
Una sera stavo guardando una commedia romantica, un film che prima mi piaceva tanto, ma a cui ora non credevo più.
Mio papà si avvicinò a me per chiedermi cosa avessi e perché non mi stavo godendo la pellicola.
Gli dissi che ero preoccupata per la verifica del giorno dopo, anche se non avevo nessun compito.
Lui mi sorrise, mi disse che non era un problema e che, in caso, avrei recuperato, ma che l'eventualità non si sarebbe presentata sicuramente.
Scusa papà se non so spiegarti i lividi, le emozioni e i brividi, le parole dettemi e indelebili, nella mia testa. Sono stupida, non riesco a parlare, ma cerca di capire, è la mia guerra da finire.
Finché un giorno persi l'autobus per andare a scuola e mi dovetti fare la strada a piedi.
Notai un roseto in un giardino, ma solo una rosa isolata alle altre era bella e perfetta, a differenza delle altre, che erano o appassite oppure rovinate dagli insetti e dai parassiti.
Quell'immagine mi rimase impressa per tutto il giorno.
Non per illudermi, ma in un gruppo malato, un elemento può salvarsi, giusto? E perché quell'elemento non potevo non essere io?
Dovevo ristabilire la mia sanità mentale, anche se ci avrei messo del tempo.
Dovevo farlo per me stessa, per smetterla di annegare e cadere sempre più a fondo.
Se per Andrea sono stupida, non è detto che io lo sia.
Se per Francesco sono invisibile, altri potrebbero trovarmi simpatica.
Le loro parole non mi definiscono.
Certo, ho dei difetti. Tutte le rose hanno le spine, altrimenti non sarebbero naturali, ma almeno i miei petali sono intatti, sani e belli.
Da oggi, quando diranno che sono un fallimento, prendo e alzo di livello tutto ciò che faccio.
Se mi insultano, io taccio, perché non vale la pena perdere tempo a rispondere, ma se mi menano, gli schiaccio.

Questo è il mio capitolo dedicato a noi, piccoli eroi.

PLAYLISTDove le storie prendono vita. Scoprilo ora