Little Me - Little Mix

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JESY'S POV

Ricordo che da bambina il mio sogno lavorativo rispecchiava banalmente uno degli stereotipi femminili.
Ricordo che rimanevo incantata a guardare le ragazze, che sfilavano fiere sulla lunga passerella e che avanzavano, imitando la camminata maestosa, autoritaria ed elegante di una pantera o di una leonessa.
Quelle ragazze riuscivano a catturare tutti gli occhi delle persone presenti nella stanza. Nessuno osava distogliere lo sguardo e persino io mi sentivo quasi in colpa a sbattere le palpebre, perché avrei perso anche un prezioso secondo di quella rara, sfuggente e limitata bellezza senza uguali.
Da bambina il mio sogno lavorativo era di diventare una famosa e bellissima modella.
Ricordo tutte le volte che mi nascondevo in bagno per giocare con i trucchi di mamma per diventare una vera diva.
Ricordo che ogni volta che i miei genitori mi accompagnavano a comprare un paio di scarpe, io lottavo con loro perché volevo un paio di tacchi alti.
Ricordo che un giorno presi tutti i pantaloni, presenti nel mio armadio, e li buttai a terra perché da quel momento io volevo indossare solamente vestitini, gonne e tutù.
Al contrario di molte altre ragazzine, che da bambine vogliono fare le principesse, le cantanti, attrici o veterinarie, ma cambiano idea con l'inizio dell'adolescenza, io non abbandonai mai il mio sogno.
Furono gli altri a distruggerlo e a uccidermi lentamente mente, corpo e anima.
Il primo giorno della prima media cambiai classe, rispetto alle elementari. Ero molto spaventata, ma anche eccitata di conoscere tanti nuovi amici. Infatti, nella mia nuova classe conoscevo solo la mia amica Leigh-Anne Pinnock.
Il primo giorno di scuola, la professoressa di inglese ci chiese di presentarci a uno a uno, in ordine alfabetico.
Io ascoltai tutti con grande attenzione perché quei racconti erano le radici dei miei prossimi amici e trepidavo perché volevo che il mio turno giungesse presto.
Finalmente arrivò la lettera N del mio cognome, mi alzai in piedi e sorrisi a tutta la classe, prima di iniziare a parlare: <<Mi chiamo Jesy Nelson, sono nata il 14 giugno e abito Romford.
Ho una sorella, due fratelli e un cane.
Mi piace studiare inglese, scienze e geografia.
Da grande vorrei fare la modella.>>
Fu solamente con l'ultima frase pronunciata, di sole sei parole, che mi assicurai tre anni di beffe, prese in giro e crudeli scherzi.
Mi assicurai tre anni di dolore, sofferenza e insicurezza interiore.
<<Jesy, ma tu hai almeno uno specchio in casa?>>
<<Sì Daniel, perché?>>
<<Niente, mi chiedevo solamente, se sai di essere così brutta, perché mai pensi che qualcuno possa assumerti come modella?>>
Appena tornai a casa, mi chiusi in camera a piangere.
<<Jesy, sei più grassa di una balena.>>
Quel giorno dissi a mia mamma che avevo mal di stomaco e non volevo cenare. Prima bugia.
<Jesy, smettila di mangiare o esploderai.>>
Cos'ho di sbagliato?
<<Jesy non può giocare con noi, verrebbe scambiata per la palla.>>
Ricordo che un giorno, sola a casa, tolsi ogni specchio dalla parete della mia camera e del mio armadio.
Quando a casa mio papà mi chiese il motivo, risposi che volevo modernizzare la mia camera, d'altronde gli specchi ci sono anche in bagno. Seconda bugia.
<<Oggi era una bella giornata, finché non ho visto Jesy. Qualcuno conosce un medico bravo a esportare via gli occhi da corpo? Pagherei qualsiasi cifra.>>
Ogni mattina mi alzavo dal letto stanca e svogliata. Cercavo di evitare di incrociare il mio sguardo con la mia immagine riflessa.
La maggior parte dei giorni fallivo e, alla vista di me stessa, provavo un intenso senso di disgusto e ribrezzo, che mi seguivano per tutto il resto della giornata, come fossero parte integrante della mia ombra o direttamente del mio corpo.
La notte smisi di dormire perché avevo costantemente le testa sovraffollata di pensieri.
Fino a quel momento non avevo mai esaminato obiettivamente il mio aspetto.
Mi venne da pensare che, forse, i miei compagni avessero ragione.
Si dice che, quando ti abitui a sentire costantemente una cosa, inizi a considerarla un'indiscutibile verità e inizi a crederci fortemente. Per me, fu così.
Ogni giorno subivo almeno una violenza verbale dai miei compagni di classe, a cui non potevo allontanarmi.
Ogni giorno tornavo a casa piangendo, odiando sempre di più il mio corpo e tutta me stessa.
Pensavo di essere orrenda, grassa, bassa, stupida, un fottuto errore, una fottuta delusione, un mostro.
Pensavo che, se fossi svanita nel nulla, avrei fatto un piacere all'universo intero, ammesso che qualcuno si fosse accorto della mia scomparsa, talmente ero insignificante.
Leigh-Anne avrebbe voluto aiutarmi e difendermi, all'inizio ci provava, ma non fece altro che diventare anch'essa un loro bersaglio.
La chiamavano spesso pecora nera e mostro, data la sua pelle scura.
Io mi sentivo ancora peggio, per i sensi di colpa.
Ricordo una volta a ginnastica, il professore ci concesse di giocare a pallavolo e di fare noi le squadre. I due capitani erano Ian e Austin, che, a turno alterno, chiamavano il nome del loro prossimo compagno del team.
Io e Leigh-Anne rimanemmo scelte per ultime.
A quel punto Ian avrebbe dovuto fare uno dei nostri nomi, invece prese la palla, fece un cenno ad Austin e iniziarono a giocare senza di noi, facendo finta che noi non esistessimo.
Il professore diede loro una punizione, ma, purtroppo, non è obbligando l'alunno a stare un'ora in più dopo scuola, che si sconfiggono i bulli.
Pensavo che finire le medie avrebbe potuto portarmi lentamente alla salvezza, lontano dai demoni, che mi criticavano costantemente, ma non fu così.
Ormai ero segnata, mi sentivo e volevo stare sola perché avevo paura che la mia presenza potesse essere un peso per le persone che mi circondavano.
Cercavo di passare sempre inosservata e di stare tranquilla, di non parlare troppo, così nessuno si sarebbe accorto di me e nessuno avrebbe potuto ferirmi di nuovo.
Vivevo nel costante terrore di essere giudicata. Piuttosto, preferivo rimanere nella mia solitudine, mi informavo per sapere se un certo comportamento o un capo d'abbigliamento era considerato osceno, così da evitarli e non catturare cattività ingiustificata e gratuita.
Continuavo a piangere ogni notte, sentendo la mente pesante, sovraffollata di commenti ricevuti e non dimenticati.
Ricordo che alle superiori la professoressa di scienze ci chiese di svolgere un progetto di gruppo.
Io ero con altre tre ragazze della mia classe.
Avremmo dovuto pensare insieme a cosa fare e lavorare come una squadra.
Io ero elettrizzata dall'idea perché scienze mi piaceva e forse avrei potuto sconfiggere la timidezza e la solitudine.
Ricordo che avevo un sacco di idee a proposito del progetto, ma le mie compagne non sembravano altrettanto entusiaste, parlavo con loro, ma non sembrava mi sentissero, come se stessi dentro a una bolla invisibile e impenetrabile, da cui non potevo nemmeno scappare.
Cercando di passare inosservata, mi ero costruita la mia stessa cella di prigionia, ormai ero etichettata.
Vissi un'adolescenza grigia, senza emozioni e senza più alcun sogno perché il mio desiderio più grande, per non dire l'unico che avevo, ormai si era incastrato nel cassetto, che non riuscivo più ad aprire.
Una volta la professoressa di letteratura inglese mi chiese di restare a parlare dopo la lezione e mi disse che riusciva a vedere dentro di me, attraverso i miei occhi.
Diceva che, secondo lei, ero una bellissima, incredibile e coraggiosa ragazza, rimasta intrappolata in un corpo e in una mente non mia, ma che dovevo cercare di scappare, ritrovare me stessa e la felicità.
Mi fece piacere quello che la professoressa mi disse, ma interpretai male le sue parole perché, da allora, mi misi a pensare a come avrei potuto migliorare la mia vita e la soluzione più forte ed efficace che mi venne in mente fu quella di cambiare: <<Sono brutta e grassa, devo diventare bella e magra>>. Credo che quello fu il mio errore più grande.
Ero in quarta superiore quando presi quella decisione, all'inizio fu difficile mettermi a dieta perché vivevo sotto lo stesso tetto dei miei genitori e dei miei tre fratelli, dieci occhi attenti a cosa e quanto mangiassi, potevo sfamarmi poco o addirittura saltare un pasto, ma non due.
La svolta l'ebbi quando mi trasferii al college, lontano dalle loro premure.
Nell'appartamento dove abitavo c'erano altre due ragazze, erano simpatiche, ma frequentavano altri corsi, rispetto ai miei, e facevano comunella tra di loro, il che non mi faceva sentire molto a mio agio, integrata e ben voluta a casa mia, ma aveva il suo lato positivo: potevo seguire la mia stessa dieta ferrea, senza intoppi e senza troppe bugie. Finalmente potevo scegliere io la mia stessa alimentazione, cosa, come e soprattutto se mangiare.
All'inizio cercavo di non saltare troppi pasti perché volevo sì diventare magra, ma pur restando in salute, integrando con due allenamenti settimanali in palestra.
Dopo un mese di sforzi mi pesai per la prima volta, ma, contrariamente alle mie aspettative, il numero digitale, apparso nel display, mi avvertì che non ero dimagrita come mi ero imposta di fare.
Erano anni che aspettavo un corpo bello e ammirato ed erano anni che venivo derisa della mia figura, non volevo più aspettare.
Iniziai a saltare molti più pasti e aumentai gli allenamenti sportivi tra palestra e nuoto in piscina.
Iniziai a pesarmi ogni giorno, per mantenere in ordine e sotto controllo la situazione.
Finché il numero calava, ero serena e soddisfatta dei miei sforzi, quando il numero aumentava, anche di un misero etto, scoppiavo a piangere, entrando nel panico, e chiedevo a me stessa cosa ci fosse di sbagliato in me e perché ero così brutta e incapace.
Vivevo nella convinzione che, per avere successo nella vita e come persona, bisognasse essere belli e io pensavo di non esserlo.
Per le vacanze natalizie tornai a casa, ero felice e curiosa di sapere cosa avrebbero detto la mia famiglia e Leigh-Anne del mio nuovo aspetto, in quattro mesi avevo perso undici chili. Quando smontai dall'autobus, tutti mi stavamo aspettando alla fermata, ma il loro sorriso si spense, appena scesi l'ultimo scalino del pullman.
Ricordo come mi si spezzò il cuore, guardando i volti preoccupati della mia famiglia, e ricordo il grande senso di vuoto improvviso quando Leigh-Anne mi riabbracciò dopo mesi, ma non disse una parola, semplicemente mi strinse forte e, quando la guardai negli occhi, i suoi erano lucidi e pronti al pianto non di gioia.
Da quel momento iniziai a riflettere e capii il mio errore.
La chiave non era cambiare il mio aspetto esteriore perché non mi sarebbe mai bastato, il mio "ancora un chilo" era la famosa "ultima sigaretta" di Zeno.
Quello che dovevo fare era cambiare il mio modo di vedere il mondo e me stessa e provare ad accettarmi.
Mi trovavo in quella situazione perché avevo paura di parlare, senza saperne il motivo, e preferivo subire, piuttosto che ribellarmi, difendermi e confrontarmi.
Parlando con le altre ragazze, capii che tutti hanno i propri punti deboli che non apprezzano, ma con i quali è possibile convivere.
Io ho il rotolino sulla pancia, Leigh-Anne a volte si sente a disagio per la sua pelle, Perrie non crede di essere graziosa perché dice di avere troppe lentiggini, Jade non crede di avere nulla di speciale e di essere troppo comune, Alyson non sorride mai nelle foto perché ha i denti storti, Kevin ha le smagliature sulle braccia.
Il fatto buffo è che, secondo me, i loro sono problemi inutili e inesistenti, così ho pensato che, forse, anche la mia incertezza fosse insensata.
Mi imposi ogni giorno di guardare a testa alta il mio riflesso sullo specchio e a dirmi di essere bella, fino all'autoconvincimento.
Non ha senso farsi frenare dalla paura del silenzio, ho imparato a mie spese che bisogna parlare, urlare e ora so che ogni ragazza può essere bella, stupenda, può essere tutto quello che lei vuole.
Magari avessi saputo prima tutto questo, magari potessi in qualche modo tornare indietro nel tempo e, se possibile, incontrare la piccola me e farle ascoltare il mio consiglio, ovvero quello di parlare, le direi di gridare con tutta l'aria che riesce a trattenere nei polmoni, parlare più forte ed essere più orgogliosa della persona che già è, perché non servono cambiamenti e che è già stupenda.
Puoi scrivere un libro partendo da una singola e insignificante pagina, ma riuscire a raccontare una delle storie più epiche e ispiratrici del mondo letterario.
Le lancette dell'orologio segnano l'intero scorrere del tempo, eppure girano in un solo senso.
Abbiamo tempo per comportarsi come si deve, ora si deve correre veloce e rischiare tutto, senza avere paura di cadere. Essere piccoli, ma sentirsi grandi e rendere fieri i nostri giovani noi stessi.

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