Capitolo I - Aggredita

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Non è così che immaginavo il mio diciottesimo compleanno.

Il treno era in ritardo. Neanche un'ora di viaggio da una stazione all'altra ed era in ritardo. Quel tanto che bastava per farmi perdere la navetta e costringermi a scarpinare fino a casa. Erano giusto un paio di chilometri e io, ovviamente, avrei potuto percorrerli senza battere ciglio, ma dieci ore e passa trascorse fuori casa mi davano il diritto di usufruire dei rigidi sedili in plastica del mini bus e del carattere scorbutico di Giona, l'autista. Tutti i pendolari lo trattavano con rispetto, come se facesse parte della struttura del mezzo, incollato al suo sedile da tempo immemore. A memoria d'uomo, Giona non aveva mai sorriso a nessuno, mai pronunciato una frase che esulasse dai suo lavoro e, non essendo nato nella nostra città, era uno dei pochi a non avere una storia o meglio uno dei pochi ad averne una che nessuno di noi era mai stato in grado di scoprire. Nell'ultimo anno, ad aumentare i solchi di insofferenza che si interponevano a quelli delle rughe, gli era stata affiancata una collega, essendo aumentati i turni. I pendolari più recenti come quelli di vecchio corso, erano stati subito felici quando al suo posto avevano trovato Iris, gentile, gioviale quasi, pronta a dare una mano in caso di problemi e di cui praticamente mezza città conosceva l'albero genealogico, la data di compleanno e dove si recava in vacanza ogni anno.

Navetta o non navetta, comunque, quella sera nulla avrebbe potuto turbarmi profondamente perché me ne tornavo tutta contenta con in tasca il mio primo stipendio e per quanto non sapessi ancora cosa ne sarebbe stato della mia vita di lì a qualche anno, ero felice di questo inizio, che era soltanto mio e che mi meritavo dopo le recenti batoste.

Negli ultimi due anni, la mia vita era infatti andata a gambe all'aria e con essa l'idea che avevo di me stessa come di una ragazza acuta e perspicace. I miei, sposati da quasi trent'anni, un bel giorno avevano chiesto a me e a mio fratello di accomodarci in salotto per comunicarci che: loro si stavano separando; avremmo lasciato la casa in cui abitavamo, la nonna, che viveva con noi, sarebbe finita in ospizio. In pratica il lavoro che costringeva mia madre a dormire fuori casa, da mesi, altro non era se non il suo nuovo appartamento a cento chilometri da noi, preso in affitto in vista della separazione. Non ricordo di aver pianto, protestato o subito grossi scossoni né di aver parlato con mio fratello di quanto stava accadendo. Ho fatto finta, come lui, che si trattasse di un semplice cambiamento che poco avrebbe influito sulle nostre vite, ho preparato i bagagli, dato via ciò che apparteneva alla me bambina e riorganizzato tutto nel nuovo appartamento in cui avremmo vissuto io e mio padre. Mio fratello, che aveva già deciso di accettare un lavoro a Londra, si era trasferito temporaneamente da mia madre, con la precisa intenzione di non tornare mai più a vivere né con lei né con nostro padre. Avevo anche incoraggiato mia nonna, quando l'avevano portata nella casa per anziani, dicendole che non sarebbe stato poi così male e che sarei andata sempre a trovarla. Per chiudere questo doloroso cerchio, avevo anche litigato con la mia migliore amica Lisa che, da quando si era innamorata dello sciamannato Pier (cercava di darsi un tono, ma il suo nome era Pierpaolo) si era letteralmente dimenticata di me. Se fino a un attimo prima la mia vita era piena delle nostre chiacchierate e delle nottate sveglie in pigiama trascorse ora a casa sua ora presso la mia, proprio in quel periodo la sua idea di uscita insieme si era modificata in uscita insieme a Pier ovvero noi tre su una panchina (o in auto, al cinema, a una festa) con loro due che si sbaciucchiavano e io come testimone. Persino al pub, quando avremmo dovuto solo mangiare e bere, riuscivano a farmi sentire di troppo dividendosi ogni singola patatina e guardandosi a lungo come in un film anni cinquanta.

Se le serate si facevano via via imbarazzanti, secondo Lisa e Pier, la colpa era però mia: mi ostinavo a non voler uscire con nessuno dei ragazzi che frequentavamo e trascorrevo troppo tempo con la mia scardinata famiglia. In effetti, i fine settimana mi dividevo tra mia madre, quando era disponibile, e mia nonna, che cercavo comunque di andare a trovare ogni volta che ne avevo l'occasione. Le serate, anche se non tutte, le trascorrevo con mio padre, cenando e cercando di alleviare il reciproco senso di solitudine. Mio fratello tornava ogni tanto e con somma felicità mi dedicava del tempo, ora che non ero più una piccola rompiscatole. In pratica, non frequentavo e non volevo frequentare quasi nessun coetaneo. Mi sembravano da un lato superficiali e dall'altro, giustamente, poco propensi ad ascoltare le mie lamentele e i resoconti della mia vita famigliare. Tra un po' comincerai a uscire anche con i nostri genitori mi dicevano, con un tono a metà tra l'orrore e lo sconforto.

Yara e MarcusDove le storie prendono vita. Scoprilo ora