Francesco ha gli occhi semiaperti e le briglie del cavallo chiuse nei pugni, non muore di stenti né muore di febbre, il vento di maggio gli rimbalza i ricci in fronte.
È una mattina serena, col cielo azzurrissimo e sgombro di nuvole, gli uccelli che cantano, il paesaggio deserto: la campagna toscana è un luogo di pace, di terra chiara che il sole riarde, di colline e pianure a perdita d'occhio e file di pioppi che gettano ombra sul terreno; è un luogo di fiabe, fuori dal tempo come lo sfondo di un affresco.
Il cavallo ha il pelo scuro e la criniera folta, Francesco galoppa per un sentiero largo in mezzo ai vigneti, mentre l'aria infuocata gli asciuga le ossa da settimane di umido e di buio. Ha le labbra e le guance di un colorito vitale, il corpo caldo, la pelle illesa e pulita, coi segni delle restrizioni spariti del tutto. Il vestito costoso svolazza da ogni parte.
Giungono voci ma sono lontane: contadini non ci sono, mercenari in marcia nemmeno, i borghi sulle alture distano molte ore di viaggio. I campi sono vuoti e Francesco da solo, però le voci le sente, sempre più forti man mano che avanza, senza distinguere parole precise. Il cavallo si agita, scuote il muso, le sente anche lui.
Francesco stringe la presa sulle briglie, dura pochi secondi e la bestia si impenna, sbalzandolo via. Prima di cadere a terra chiude gli occhi, poi la sua testa colpisce le pietre, si spacca: il sangue e la polvere sono tornati.
Riapre gli occhi di colpo, respira violentemente, prova a muoversi e il suo corpo non risponde. Si trova ancora nella sua cella, su un letto o qualcosa di simile, con vestiti puliti e coperte pesanti; viene da destra un tepore sottile, e il crepitio confortante di un fuoco acceso.
«Lorenzo, si è svegliato!». Vede a mala pena, ma riconosce le voci del sogno. Un uomo si avvicina e gli sposta una pezza umida dalla fronte, la immerge in una bacinella al suo fianco, la strizza e la rimette dov'era: «So che è fredda, ma così dev'essere. Tiene a bada la febbre». Francesco lo ricorda dai tempi in cui era bambino — è un anziano dottore, pisano, ma di grande fama in Firenze — e si chiede se Lorenzo lo abbia fatto arrivare per lui.
«Andate ora, lasciateci tutti. Conducete il dottore alle sue stanze, che mangi e riposi e riceva il compenso che gli spetta». Eccolo, si dice Francesco, ecco il Magnifico. Seguono passi, altro rumore, le armi delle guardie che tentennano, poi, finalmente, il silenzio.
C'erano stati giorni, in una Firenze ancora radiosa, in cui la sola presenza l'uno dell'altro era stata di conforto. Giorni di molti anni prima, in cui nessuno immaginava quel finale. Ma ora, pensa Francesco, il silenzio di Lorenzo lo divora, è greve e carico di angoscia, e quei giorni di fratellanza non sembrano nemmeno esserci stati.
«Non pensavo che sarei mai stato in grado di provare indulgenza per l'assassino di mio fratello, che Dio mi punisca perché non riesco ad odiarti», così come il suo silenzio, anche la sua voce è greve, intrisa di colpa e di tristezza.
Dio — si ripete Francesco con ironia amara, spiazzato dalla sua confessione — nemmeno Lui avrebbe pietà di me, perché tu sì? ma non lo dice ad alta voce, ché la sua bocca non collabora.
La sagoma di Lorenzo è scura e imponente sopra di lui, ridotto a poco più che un cumulo di ossa e pelle sottile: «Che Dio mi punisca perché non ti voglio morto».
A Francesco costa tutto il fiato che ha in corpo mettere in fila una manciata di parole: «Dio si rallegra della tua misericordia, Lorenzo»
«Non è misericordia, è egoismo: io antepongo il mio volere a quello di Firenze, e per la mia debolezza nego giustizia a mio fratello. Non sono un'anima pia, Pazzi, sono solo un'anima stanca».
Francesco è inerme e non riesce a rispondere, e anche se riuscisse non saprebbe cosa dire. Ormai da molto non è più tempo di discorsi.
Lorenzo si siede al suo fianco sul giaciglio, arde di calore umano; indossa un abito rosso, ma per lui è poco più che una macchia, ogni sforzo di mettere a fuoco si rivela un inutile spreco di energie — delle poche rimaste.
Li interrompe Bastiano Soderini, e una scena già vista si ripete: «Lorenzo, ti vogliono» dice. Francesco sente il panico che lo pervade: l'ultima volta che l'ha lasciato in quel modo, lui è quasi morto senza rivederlo.
Al contrario, Lorenzo congeda Bastiano con un gesto: «Va', di' loro che ho da fare»
«Ma i Priori...»
«Ho detto va', li raggiungerò quando sarà possibile».
«Ti cercano, sai?» sussurra Lorenzo, quando i passi di Bastiano ormai sono lontani: «I Priori, e il popolo anche... tutta Firenze chiede di te». Ha le spalle curve, la testa tra le mani: per essere uno che è uscito vivo da una congiura, sembra incredibilmente sconfitto. «Vogliono la tua testa, Francesco. Vogliono legarti un cappio al collo e guardarti scalciare mentre la vita ti abbandona, ma io non sono in grado di dar loro ciò che chiedono. La Signoria mal sopporta questo mio temporeggiare, però come posso... come posso io... — la sua voce si frantuma — chiederanno di te ancora e ancora e alla fine dovrò cedere. E sarò costretto a guardare, come ho guardato mio fratello».
Piange, rabbia e disperazione non si distinguono più: «Darei la tua vita subito per quella di Giuliano, ma la mia altrettanto in fretta per salvare la tua». Piange, però lo fa con contegno, nel modo in cui si conviene ad un Medici.
Francesco non respira per la vergogna, ci sono cose che solo adesso comincia a capire. Tenerlo in vita è una tortura anche per Lorenzo, lasciarlo morire lo sarebbe altrettanto, è un limbo malato che imprigiona tutti e due.
«Dovevi ammazzare me, invece che mio fratello»
«Il piano, se ti consola, era di ammazzare entrambi». Non lo dice con spregio, quello di Francesco è un sarcasmo esasperato, un tratto di lui che Lorenzo ricorda fin da quando giocavano assieme. Se ne serviva per proteggersi anche allora. «Ma è un bene che non sia accaduto, Firenze ha bisogno che tu la guidi». In fondo lo crede sul serio, se n'è solo accorto troppo tardi.
«Davvero, Pazzi? Mi sembra un filo ipocrita, detto da te».
Francesco sorride — ci prova, almeno — guarda il fuoco che scoppietta lì accanto: che senso ha avuto tutto questo? A che cosa ha portato, se non a sangue e lutti e un mare di disperazione? Gli antichi rancori sono sepolti con Jacopo.
«Sul letto di morte, Lorenzo, si guarda ogni cosa con altri occhi».
Il Magnifico annuisce, asciugandosi il viso con la manica del vestito. Chissà con che occhi l'ha guardato Giuliano, mentre spirava tra le sue braccia.
«Non importa, comunque, credi che io sia ancora lo stesso uomo, dopo ciò che hai fatto? Credi che sarò mai lo stesso uomo, quando si prederanno anche te?». Francesco non può nascondere un brivido gelido, a quell'ultima frase.
«Sono solo un corpo vuoto, Pazzi, senza pace e senza riposo. Ho combattuto per la mia famiglia, per Firenze, persino per te, un tempo. E guarda che cos'ho ottenuto, solo un angolo di terra su cui piangere Giuliano».
Francesco vorrebbe ribattere che sbaglia, che ha ottenuto molto più di ciò che immagina, il prestigio, il potere, un posto indelebile nella storia, ma preferisce lasciarlo sfogare. Sa di cosa parla, conosce da vicino quel senso di oblio, di freddo penetrante che si lega alle ossa e non ti fa sentire al caldo mai. Non è colpa della prigionia, lui lo provava da prima.
Era stato questo l'effetto peggiore delle manipolazioni di Jacopo, fargli credere sempre di avere nemici ovunque, specialmente tra i Medici. Farlo sentire usato e deriso da tutti quelli in cui aveva cercato amore, come Novella, o come Lorenzo. E Francesco c'era cascato ogni volta, fin da quando era bambino, perché così lo aveva cresciuto suo zio, talmente fragile e insicuro da piegarlo al suo volere con uno schiocco di dita.
Quindi sì, Francesco può capirlo se la rabbia l'ha cambiato, se ha bruciato nel suo cuore ogni germoglio di speranza, lasciando nient'altro che un pugno di cenere. Può capirlo perché sa cosa vuol dire, ma non lo ammetterà davanti a lui, non chiederà comprensione dopo il gesto che ha commesso.
Tacciono entrambi per un po', non osano guardarsi. L'aria è densa, quella sera, soffocante più del solito; Lorenzo sente il petto strizzato in una morsa, persino lui che è in salute respira con affanno. E non si volta mentre esce dalla cella, pungolato da chissà quale dei tanti pensieri che lo inseguono, ma sussurra un flebile «Tornerò» che basta a confortare Francesco.
Se solo avesse saputo che cosa li attendeva, lo avrebbe salutato diversamente.
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Di doman non c'è certezza - Francesco Pazzi
ФанфикLorenzo risparmia Francesco dall'impiccagione, ma è tutt'altro che finita.