Parte prima

921 38 21
                                    

La prima volta che qualcuno gli parla sono passate tre settimane, ma potrebbe anche essere un giorno, oppure un anno, il tempo ha perso del tutto di significato.

La guardia che lo veglia è nuova, gli sputa contro e lo chiama «Cane», poi spinge con un calcio la solita ciotola di zuppa oltre le sbarre. Lui, che non ricorda più il gusto della carne o del vino alla tavola di suo zio, ed ha scambiato da giorni la dignità per la sopravvivenza, si china a raccoglierla: non gli capita abbastanza spesso di mangiare per permettersi di sprecare cibo.

Quando sopravvivere non richiede tutta la sua concentrazione, la noia si prende gioco di lui, lo consuma crudele e logorante, ma è quasi un sollievo: nei momenti che restano, gli incubi e il terrore annebbiano ogni barlume di lucidità che gli è rimasto, lo divorano da dentro come un male terribile; Francesco sente l'ombra della follia che gli alita sul collo.

Lorenzo vendicherà suo fratello prima dell'inverno, se così non fosse se lo porterà via il gelo, in ogni caso non vedrà un altro Natale. Questo può accettarlo, è comunque una sorte preferibile alla vita in una cella, a perire lento di stenti, ma perdere il controllo della sua mente, quello no: scordare il suo nome e la sua casa, o l'amatissima Firenze, non è un destino in alcun modo tollerabile.

Francesco lo sa, mentre col dito percorre all'infinito la stessa linea storta nella polvere, scorticandosi il polpastrello sul pavimento. Francesco lo sa, e siccome è solo, di una solitudine che non si colma, ricorda Guglielmo, gli occhi innocenti di suo nipote, persino le carezze di madonna Foscari: non prova più rancore per lei, nemmeno biasimo, solo rimpianto per quell'amore nato fuori tempo; non c'è stilla del suo stesso sangue che si risparmierebbe, pur di morirle in grembo e trovare pace.

Ha sentito che è maggio, lo dicevano due guardie al cambio; tarda primavera, ma inverno orrendo dov'è rinchiuso. Ha sentito anche il nome di Lorenzo, detto piano e con sospetto, poi i suoi sensi stanchi non hanno colto altro. Ogni parola, che sia ugualmente di salvezza o di condanna, è un conforto, qualcosa di umano tra la pietra spoglia ed il silenzio che lo opprime.

La zuppa fa schifo, è rancida e fredda e gli provoca la nausea ad ogni cucchiaio, ma placa i crampi della fame per un po'. La guardia siede al di là delle sbarre e lo guarda con un ghigno, masticando una pagnotta calda a bocca aperta. Francesco, che sente le guance incavate e può contarsi le costole, pensa che non esista niente, niente che non darebbe per averne un solo morso, ma non lo dice. I suoi carcerieri si prendono con lui già abbastanza soddisfazioni, con le umiliazioni, le botte e gli insulti, non c'è motivo di supplicare per qualcosa che non avrà in ogni caso.

Ripulita la ciotola si appoggia alla parete più vicina, ha la testa pesante ed il collo a pezzi che fatica a sostenerla. Nonostante lo sguardo maligno della guardia, che lo fa sentire una preda ferita alla mercé di un cacciatore, il sonno ha la meglio su di lui in pochi istanti.

Una secchiata d'acqua lo risveglia poco dopo, il gelo gli impregna i vestiti sporchi e gli cola addosso, massacrandogli la pelle come mille aghi. Francesco spalanca gli occhi e trema forte, quasi si spezza i denti, accartocciandosi più stretto contro il muro. Sospira: è talmente esausto, vuole solo non avere freddo più.

La guardia ride, in piedi al suo fianco, lancia il secchio in un angolo e gli affonda la mano callosa tra i ricci scuri, tirandolo a sé con violenza, ma lui non ha la forza né la voglia di reagire e glielo permette.

«Intendo chiederti una cosa, ragazzo: tu sei un Pazzi, un traditore di Firenze, inginocchiato davanti a me, ed io potrei strapparti la vita con un gesto, perché non dovrei farlo?».

Il prigioniero tace, lo guarda in faccia. L'uomo ritrae la mano dai suoi capelli: «Sto parlando con te, Pazzi» dice, colpendolo al costato con un calcio: «E quando ti parlo, esigo una risposta», poi sferra un altro calcio.

Francesco rantola, contorcendosi a terra a corto di fiato. Non sa come suonerà la sua voce dopo tre settimane di prigionia, ma vuole che i colpi finiscano. La nuova guardia sembra odiarlo già abbastanza per farla irritare ancora.

«F-forse dovreste». Aprire bocca è faticoso e gli raschia la gola come carta vetrata, il suono che ne esce è basso ed incredibilmente roco, quasi irriconoscibile, ma il suo carceriere sembra soddisfatto e sorride, con quella strana luce negli occhi che fa desiderare a Francesco di essere già morto.

«Risposta esatta, Pazzi». L'uomo si china su di lui e lo afferra per il mento, sollevandolo da terra. Ogni movimento è brusco e doloroso.

«È davvero un peccato che i Medici rovineranno il tuo bel faccino».

Francesco rabbrividisce al pensiero, serra gli occhi — non sa cosa stia succedendo, non gli importa neanche di saperlo, spera solo che termini in fretta. Il tocco ruvido della guardia gli ricorda quello di suo zio.

«Dove mi trovo? Perché non sono rinchiuso nella torre?»

«Nella torre?» ghigna quello: «La stessa che imprigionò il grande Cosimo? Non ti crederai così importante. E poi, ragazzo, dopo l'assassinio di Giuliano sei più un affare di Lorenzo che di Firenze, ti trovi nei sotterranei del suo palazzo. Dimentica il mondo fuori da questa gabbia, perché non lo rivedrai».

Lui annuisce senza protestare, lo aveva capito. Vorrebbe solo che fosse tutto già finito.

«Devo ammetterlo, voi Pazzi non mi siete mai piaciuti, siete sempre stati inaffidabili. La vostra banca ha rovinato mio padre, maledetti usurai, ed io mi assicurerò, per il poco che ti resta, di restituirti il favore che la tua famiglia ha fatto alla mia. Renderò la tua misera vita un inferno».

Francesco potrebbe persino ridere, se non avesse le labbra lacerate dall'arsura. Un inferno più di così? pensa, ma preferisce non sfidarlo.

Sente già il prossimo colpo che si prepara ad arrivare, invece un rumore distante li interrompe: è un suono di chiavi, poi passi, torce, qualcuno che si avvicina e sembra di fretta. La guardia torna velocemente al suo posto, lui ha paura.

Si presentano tre uomini, Bastiano Soderini con due soldati di Lorenzo, armati ed obbedienti, e si fermano ad un passo dalle sbarre. Il fuoco delle torce riscalda l'aria debolmente.

Bastiano sospira, lo guarda con disprezzo ma non solo, c'è qualcosa in più che è difficile da decifrare, forse pietà. Ordina al carceriere di aprire la cella e fa due passi all'interno, stringendosi nel mantello: «Pazzi, Lorenzo vuole vederti, puoi camminare?». Ha la voce buona, è ancora un ragazzo però è leale, leale ai Medici. Francesco sente che quella è la resa dei conti.

«Non lo so» ammette con sincerità, perché è troppo tempo che non si regge sulle gambe e ha tutto il corpo indolenzito. Bastiano fa un cenno ai soldati che lo affiancano: «Alzatelo» dice, un istante dopo quelli lo strattonano rudemente per le braccia. I vestiti bagnati sono un fastidio insopportabile e il suo equilibrio è precario, ma gli uomini che lo sorreggono non permettono che inciampi.

La guardia gli sussurra: «Mi dispiace non poter assistere» mentre passa, poi si fa da parte; i soldati camminano veloce e mantenere il ritmo, nelle sue condizioni, è una tortura sfiancante.

Francesco prega in silenzio che lo portino alla luce del giorno, per ucciderlo. Prega di non morire al buio, di rivedere Firenze un'altra volta e di sentire di nuovo il sole caldo di maggio, ma la speranza lo abbandona ad ogni passo, perché Bastiano li guida sempre più in profondità, per cunicoli stretti e marci di umido.

Quando il suo corpo comincia a cedere, e i soldati più che accompagnarlo lo trascinano, la voce di Lorenzo rimbomba distante al di là di una porta massiccia. Francesco è troppo confuso per seguire il discorso, ma capisce che sono arrivati.

Il suo respiro trema, poi Bastiano fa scattare la serratura.

Di doman non c'è certezza - Francesco PazziDove le storie prendono vita. Scoprilo ora