9. Ciαo Jαne

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Suoni di una partita di calcio. Suole sul legno. Sole sulle gote.

"Ehi! Bennet! Aspettami!"

Jane stava ritornando in collegio dopo le sue compere, il Sole che riscaldava l'intera Bath era particolarmente piacevole quella mattina e Jane si promise di visitare le terme romane.

Jane Bennet sentì la voce di Alexander Watson forarle i timpani mentre lui si accingeva a raggiungerla.

La sua figura comparve subito al suo fianco, adocchiando le buste che aveva in mano.

Aveva i capelli tremendamente spettinati, segno che aveva corso parecchio per raggiungerla, perciò si apprestò a sistemarli con le dita.

"Sei andata da quel pidocchioso? Non sapevo fossi una bimba poverella piccola Bennet" esclamò lui, aspettando esitante una sua risposta.

Jane camminava in silenzio, le spalle ritte e le dita delle mani doloranti per tutte quelle pesanti buste.

Stava soppensando l'idea di lanciargli una di quelle buste per stenderlo e ritornare in collegio in santa pace, quando parlò di nuovo.

"Dai, non te la sarai mica presa...dopotutto siamo amici, no?" tentò di nuovo lui, provando a sorridere nella sua direzione.

"Amici, noi due amici?" disse lei piano, ogni sillaba scandita com precisione, un modo apposito di parlare in certe precise occasioni che aveva preso da sua madre.

"Ci conosciamo!"
"So appena il tuo nome"
"Ma almeno lo sai, piccola Bennet"
"Non farmi ridere, lenticchia"

Jane concluse quel piccolo battibecco che lasciò Alexander Watson con un mezzo sorriso sulle labbra solo sul marciapiede, con la sicurezza che quell'anno sarebbe stato molto, particolarmente interessante.

Perché Alexander Watson andava matto per le novità e non si vedeva un nuovo collegiale da due anni e più.

Ma ahimè, non sapeva con che diavolo stava intavolando il gioco della vita.

*

Jane ebbe diverse difficoltà per ritrovare la strada corretta.

Si era fermata spesso davanti le vetrine dei negozi ed era rimasta colpita da un negozio che vendeva vinili.

A Charlottesville non aveva mai visto nulla del genere, visto e considerato che l'unica possibilità di sentire la musica era data dalla presenza della radio oppure della televisione, che era puntualmente occupata da suo padre.

Rimase rapita da quella vetrina, dai colori delle custodie dei vinili neri, neri come la pece, per un tempo che non seppe neppure quantificare.

Era quasi tentata di entrare per dare un'occhiata, quando vide quasi per caso, l'ora sul suo orologio da polso.

Quell'orologio era sempre stato preciso, un vero orologio svizzero.

Un orologio dal polsino in cuoio che lei teneva sempre un po' largo, un orologio che era appartenuto a suo nonno paterno Harold Bennet.

Un orologio che portava il peso delle due guerre mondiali, che suo nonno definiva 'una piaga dolcemente dolorosa'.

Eppure, in quel preciso istante, segnava le tre di notte.

Jane quasi svenne alla vista delle lancette che, perfette ancelle della misteriosa dama chiamatasi Tempo, erano perfettamente ed inesorabilmente ferme.

"Deve essere un problema alla batteria, non c'è altra spiegazione..." sussurrò lei, mordendosi le labbra dal nervoso e provando a reimpostare l'ora corretta, dando dei colpetti all'orologio, provando a far rinvenire la batteria dall'altro mondo.

L'arte di esser giovani IN PAUSADove le storie prendono vita. Scoprilo ora