4. Fortuna

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Noah

Gli ospedali non mi erano mai piaciuti più di tanto. Avevano quell'alone di tristezza, i muri sembravano ancora trattenere le urla strazianti di chi là dentro ci aveva perso un parente.

Lei era morta in casa, nel suo letto. Era impossibile per me dimenticare quella sera, le nostra grida che fendevano l'aria e il suo corpo inerme davanti a noi. Era morta tra le mie braccia e io non avevo potuto salvarla.

Non riuscivo a dormire. Avevamo passato l'intera nottata in sala giochi, ma poi i ragazzi si erano stancati e ci eravamo ritirati ognuno nelle proprie camere. Ero rannicchiato sul divanetto, di fronte a mio fratello che dormiva beato sopra la poltrona. Maddox aveva la meglio, un letto tutto per sé. Ero certo che si godeva quel ricovero come non mai, una volta fuori avrebbe dovuto riprendere con gli studi universitari.

Frequentavamo tutti e tre la Columbia University, a New York. Maddox era arrivato direttamente dalla Corea del Sud, i suoi gli avevano affittato un piccolo appartamento nella grande Mela per poter conseguire la laurea, mentre loro avevano preferito trasferirsi in un piccolo paesino sempre nello stesso stato.

Noi invece vivevamo con i nostri genitori. Nessuno dei tre aveva usufruito degli alloggi per molteplici ragioni, prima fra tutte il costo insostenibile della retta con alloggio.

Mi rigirai più volte in quel piccolo divanetto, lo stomaco brontolava e avevo bisogno di mangiare. Decisi quindi di scendere alle macchinette. Quando però uscii fuori dalla stanza, trovai Juliet seduta sul pavimento, con le ginocchia rannicchiate. Osservava in silenzio il bancone delle infermiere vuoto di fronte a lei, probabilmente il personale sanitario era nella stanza utilizzata per i riposi notturni.

Nemmeno notò la mia presenza, talmente era sovrappensiero. Fu proprio in quel momento che mi presi il tempo per osservarla davvero. Diamine, se era piccola. La sua malattia la consumava giorno per giorno e lo si poteva notare dagli esili polsi e dalle gambe scheletriche. Aveva il viso smunto, le labbra bluastre e due profonde occhiaie scure. Perfino i capelli sembravano fragili. Gli occhi azzurri erano spenti, il dolore lo si poteva notare attraverso quelle iridi prive di vita. Chissà se in quell'involucro così debole, la sua anima stava ancora usando tutta la grinta che aveva per trarsi in salvo.

«Mi hai spaventata» la sua voce mi riportò alla realtà. Era meccanica, fredda. Riuscivo a percepire il gelo solo dal tono con cui mi parlava.

Mi schiarii la voce. «Perdonami, non ti stavo fissando io...»

«Tipica scusa di chi non vuole farmi sentire in difetto. Tranquillo, sono abituata alle occhiate della gente.»

Sospirai. «Hai ragione, mi dispiace. Sono stato indelicato. Solo che... mi ricordi tanto una persona cara» ammisi, sentendomi in forte disagio per il suo sguardo. Forse ero davvero fuori luogo.

Alzò le spalle. «Siediti, ho proprio voglia di compagnia, stasera.» indicò con il capo il bancone delle infermiere di fronte a lei, così lo raggiunsi e mi lasciai scivolare sul pavimento, appoggiandoci la schiena.

Eravamo uno di fronte all'altra, in silenzio, il che avrebbe potuto creare imbarazzo. Mi sentivo però completamente al mio agio. «Da quanto sei qui?» domandai, guardandomi intorno nel reparto silenzioso.

Rimase in silenzio per qualche secondo. «Intendi dal mio ultimo ricovero o in generale? Perché devi sapere che il mio è un va e vieni.»

Non avevo dubbi. «Dal primo ricovero»

Fece una smorfia. «Sette anni.»

Mi passai la lingua tra le labbra. «Parecchio... e sei... sempre stata da sola?»

Girasoli nel buioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora