7. Piccoli per sempre

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Noah

Settembre 2009

Il mio compleanno era da sempre stato il mio giorno preferito. La mamma amava tanto farci grandi feste in giardino, invitando tutti i nostri compagni di scuola e lasciando che ci divertissimo con i nostri amici. Erano tutti presenti, tranne papà. Lui era sempre al lavoro e di tempo per noi non ne aveva mai, la mamma diceva che lo faceva per darci un futuro migliore.

Cercai con lo sguardo mio fratello Nash ma in mezzo a tutte quelle persone non riuscivo a vederlo. Sbuffai infastidito e, girandomi alla mia destra, notai mia sorella Althea che da sola si dondolava su sé stessa. Sorrisi e andai da lei. «Che fai qui? Perché non giochi con gli altri?»

Mi guardò senza sapere cosa rispondere, poi scosse il capo. «Non mi piace fare amicizia, non sono capace.»

Althea era più piccola di noi di qualche mese. La mamma mi raccontava sempre che quando aveva scoperto di aspettarla noi avevamo solo tre mesi. La mia sorellina era timida e sapevo che aveva bisogno di una spinta per divertirsi. «Vieni, giochiamo insieme» la presi per mano e lei spalancò gli occhi incredula.

«Credevo mi odiassi, Nash»

Scoppiai a ridere. «Sono Noah e ti voglio bene da morire.»

Quando finì la festa, la mamma si preoccupò di metterci a letto e lasciò Althea in camera nostra. Da qualche sera, lei odiava dormire in camera da sola, diceva di avere paura delle voci. Io sapevo a cosa si riferisse, ai litigi che mamma e papà avevano ogni sera e che ci tenevano svegli la notte. Mi assicurai che stesse dormendo, poi mi sdraiai nel piccolo spazietto che Nash aveva lasciato per me. Althea dormiva da sola nel mio letto. Quando papà rientrò, sentii i passi indistinti della mamma che, veloci, raggiunsero la porta d'ingresso. «Dove cazzo sei stato? Era il compleanno dei tuoi figli!» strizzai gli occhi, certo che avrei assistito all'ennesima lite.

«Ah, era il compleanno dei gemelli?» ci fu un secondo di silenzio, poi papà riprese a parlare, «mi dispiace, a lavoro ho fatto tardi.»

«No, eri a letto con quella puttana dell'infermiera! Erano questi, i tuoi impegni del cazzo!» urlò la mamma.

«Non usare questo tono con me!» e partì il rumore di un sonoro schiaffo. Mi tappai le orecchie, cominciando a piangere. Papà lo faceva sempre, picchiava la mamma e lei ci diceva che si era ferita per sbaglio. Io e Nash sapevamo che non era così.

Sentii una mano calda accarezzarmi la spalla, un tocco familiare che mi rese subito tranquillo. «Ehi, smetti di piangere. I grandi lo fanno sempre. Litigano, ma poi fanno la pace» Nash cercò di calmarmi, così mi accoccolai a lui per sentirmi al sicuro.

«Noi non faremo come loro, vero? Quando saremo grandi io e te non litigheremo mai, vero?»

Nash scosse la testa. «Mai. Io e te saremo piccoli per sempre.»

Settembre 2020

Quante bugie avevo dovuto sentire negli anni...

Quanti inganni, sotterfugi, parole amare condite con della finta dolcezza. La mia vita era sempre stata una bugia, fin dal primo istante. Vivevo di momenti artefatti e di maschere indossate e la cosa peggiore che non sapevo come tirarmi fuori da quello schifo.

Era domenica sera. Quel giorno della settimana lo odiavo con tutto quel cuore perché, ancora una volta, mi costringeva a far parte di una recita che non avevo più voglia di recitare. La cena di famiglia era un lurido, inutile tentativo per ripulire i miei genitori dai loro peccati. Speravano che bastasse riunirci quell'unica sera a settimana per dimostrare al mondo e ai loro stessi figli che fossero capaci di fare i genitori. Un teatrino del cazzo. Io e mio fratello sapevamo fin dall'inizio di essere figli di un matrimonio sbagliato, di essere un collante che teneva in piedi quell'amore di carta, quel sentimento che non era mai esistito.

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⏰ Ultimo aggiornamento: 4 days ago ⏰

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