Caleb ricordava ancora bene come conobbe il suo migliore amico. Aveva 4 anni, all'epoca. Joe era più piccolo di lui di soli due mesi e poco più, però sembrava che si passassero degli anni.
Caleb osservò il bambino che gli si era avvicinato, con sguardo freddo. Non voleva essere disturbato, non mentre disegnava. Aveva 4 anni, non era un artista. Ma, comunque, si atteggiava da tale davanti agli altri. Voleva star solo, a creare. Però, quel giorno, rimase sorpreso e stranamente non fu infastidito dall'interruzione, bensì il contrario. Forse era la voce del bambino, che sembrava fredda e pacata come quella di un adulto, o forse lo sguardo consapevole di chi sa che, nonostante l'età, il male esiste.
«Che disegni?»
Era una domanda semplice, però Caleb non seppe dar risposta. Osservò ciò che stava creando. Era un bambino, con un'ombra il doppio di lui. Grande e imponente come un demone.
«Un disegno»
«Grazie eh... Che rappresenta il disegno?»
Il bambino si sporse a vedere il suo creato, Caleb era convinto che sarebbe scappato. Come tutti. Nonostante il disegno non fosse eccellente, agli occhi di un bambino bastava per spaventarsi o come minimo inquietarsi. Ma Joe non fuggì, gli si sedette accanto.
«È bello. Non ho mai visto nessuno disegnare una cosa simile»
Caleb non seppe che dire, per questo rimase in silenzio. Riprese a disegnare, sotto lo sguardo attento dell'altro bambino. Non gli dava fastidio.
«Comunque io sono Caleb. Se mi dici il tuo nome, magari non ti caccio a calci nel sedere»
«Joe. Smetti di fare l'antipatico e disegna»
Dopo uno sbuffo di Joe, Caleb non riuscì a non ridacchiare leggermente. Era raro che anche solo ridacchiasse, ma non gli dispiacque. Forse, andava bene così.Caleb, mentre disegnava, ricordò tutte le volte in cui Joe, coi suoi modi di fare, lo sorprese. Sorprese in modo positivo. Non aveva paura di lui, leggeva e seguiva la sua storia senza scappare. Quando poteva, lo aiutava. Quando stava solo, lo trascinava in giro a forza. E alla fine Caleb si abituò alle uscite per la città fatte senza motivo, con dei lunghi e sottili rametti usati per disegnare sulla sabbia o sul prato. La sorpresa più grande che gli fece Joe, fu semplice.
Avevano entrambi 7 anni, stavano correndo in un campetto vicino ad un fiume. Erano fradici, Caleb aveva fatto cadere per sbaglio Joe nell'acqua e quest'ultimo l'aveva tirato giù con se. Ora il ragazzo dai capelli arancio lo inseguiva, per "vendicarsi". Caleb rideva, come raramente faceva. Solo Joe lo faceva ridere. Ma quando quest'ultimo riuscì a catturarlo, abbracciandolo da dietro per il busto, bloccandogli anche le braccia e sollevandolo leggermente, non si vendicò. Lo lasciò giù dopo che entrambi smisero di ridere, lo osservò. E poi gli fece una domanda.
«Perché ti fai male?»
Caleb aveva, da poco, iniziato a darsi pizzicotti ovunque ogni volta che veniva sgridato, che sbagliava a scrivere, che prendeva un brutto voto. Era pieno di lividi, ormai. Ma nella voce di Joe non c'era un rimprovero, non c'era pietà, non c'era superiorità. C'era pura e semplice curiosità, mista a un po di preoccupazione.
«Perché sbaglio» rispose Caleb, con voce ferma. Niente incertezza o titubanza. Era sicuro del motivo per cui si faceva male. Ma, stranamente, questa consapevolezza non lo faceva star meglio.
«Cosa sbagli?»
«Sbaglio a comportarmi con mia mamma, sbaglio a scuola e prendo brutti voti, sbaglio a disegnare...»
«E ogni volta che sbagli ti fai male?»
«Si»
«Perché?»
«Perché così imparo. Non voglio sentire dolore. Quindi mi impegno sempre di più per non sbagliare»
«E se non impari?»
«Soffrirò sempre di più»
«E non hai paura?»
«Di cosa? Di farmi male?»
«No. Di non riuscire più a sentire dolore»
Caleb rimase in silenzio, a riflettere su quelle parole.Tutt'ora ci rifletteva. E solo ora comprendeva effettivamente le parole di Joe. E ora poteva dire con certezza all'amico che si, aveva paura. Anzi, era terrorizzato. Perché ormai era così dipendente da quel dolore quotidiano che se sparisse, impazzirebbe.
Caleb continuò a ricordare, ad andare indietro con la mente. Joe gli aveva fatto la stessa domanda più e più volte. E solo una volta Caleb gli rispose. Avevano 12 anni.
«Caleb, non hai paura?» chiese Joe, fissando il soffitto bianco steso sul lettino, al castano ormai punk.
«Si. Ho tanta paura Joe» ammise Caleb, che intanto era seduto accanto all'amico.
«Davvero?»
«Si. Se ho paura, significa che non sono abbastanza forte... Non voglio essere debole...»
Le parole del 12enne crestuto erano fiacche, deboli. Sembrava fosse svuotato da tutte le energie, come se quelle parole gli fossero letteralmente risucchiate via dal corpo.
«Non dire cavolate. Sei il bambino più forte del mondo!»
Joe si mise a sedere, osservando l'amico. Era accigliato, evidentemente in disaccordo con le sue parole.
«Non è vero. Non lo sono. Altrimenti non avrei così tanta paura!»
Caleb inizialmente parlò piano, ma l'ultima frase quasi la urlò. Stava per alzarsi e scappare via, via da quel confronto. Ma le parole di Joe lo fecero arrabbiare.
«Avere paura non significa essere debole»
«Allora perché tu non ne hai?!»
Era Joe che doveva aver paura, e invece no. Era lui quello spaventato. Quello che aveva bisogno di qualcuno su cui poggiarsi. Non era giusto.
«Perché so che va tutto bene»
«Non va tutto bene! Tu sta-»Caleb interruppe bruscamente il ricordo, alzandosi di scatto e lasciando cadere il blocco da disegno. Uscì di casa e andò a grandi passi nel campetto vicino al fiume. Trovò lì Joe e gli si avvicinò. L'amico lo guardò con curiosità, anche se era evidente che si aspettava di vedere il punk arrivare. Fece per parlare, ma Caleb lo precedette.
«Joe, tu hai paura?»
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Skin of paper
Fanfiction«La tua pelle non è carta. Non devi tagliarla» «È su questo che ti sbagli. La mia pelle è carta e la lametta è la penna. Ed è con questa che racconto i miei errori» Caleb Stonewall era un ragazzo solo. Non era solo perché non c'era nessuno con lui...