"La morte"

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La madre di Joe era impazzita. Era questo che pensava Caleb. Lo pensava perché non lo faceva più entrare in casa. Usava scuse banali per non fargli vedere Joe. Perché? Non lo capiva. Ma non fece domande perché, tanto, ai bambini non si dice mai nulla. Caleb aveva capito che agli occhi degli adulti, lui era ancora un bambino nonostante in realtà fosse cresciuto prima di quanto volessero ammettere.

La madre di Joe lo chiamò al telefono. Caleb non sapeva perché. Rispose subito. Gli disse di andare a casa loro. Caleb lo fece. Andò. Joe sembrava più magro. Il punk voleva spiegazioni. Le ricevette.

Caleb passò due giorni a fare ricerche sul cancro. Non trovò niente di utile, non per le condizioni di Joe. Non era giusto.

Joe dopo qualche settimana finì in ospedale a tempo pieno. Gli diedero una stanza. Caleb odiava gli ospedali. E odiava ancor di più passarci tutto il giorno tutti i giorni. Ma non voleva lasciare Joe da solo. Non in quel periodo.

Avevano 12 anni, lui e Joe. Era uno dei periodi peggiori della vita di Caleb. Il punk aveva sempre paura, ogni volta che andava a trovare l'amico. E ogni volta, Joe lo calmava. Ma non era giusto. Perché era lui ad aver paura? Perché era lui ad aver bisogno di essere sostenuto? Doveva essere il contrario. E invece faceva star male l'amico, continuando a tagliarsi. Feriva sua madre, feriva se stesso. Perché continuava, allora?
«Cosa sbagli?»
Caleb sussultò alla domanda. Fissò l'amico, in silenzio.
«Una volta mi dicesti che ti pizzicavi perché sbagliavi. Ora cosa sbagli?»
«Tutto. Anzi, sbaglio perché ho paura»

«Caleb, non hai paura?» chiese Joe, fissando il soffitto bianco steso sul lettino, al castano ormai punk.
«Si. Ho tanta paura Joe» ammise Caleb, che intanto era seduto accanto all'amico.
«Davvero?»
«Si. Se ho paura, significa che non sono abbastanza forte... Non voglio essere debole...»
Le parole del 12enne crestuto erano fiacche, deboli. Sembrava fosse svuotato da tutte le energie, come se quelle parole gli fossero letteralmente risucchiate via dal corpo.
«Non dire cavolate. Sei il bambino più forte del mondo!»
Joe si mise a sedere, osservando l'amico. Era accigliato, evidentemente in disaccordo con le sue parole.
«Non è vero. Non lo sono. Altrimenti non avrei così tanta paura!»
Caleb inizialmente parlò piano, ma l'ultima frase quasi la urlò. Stava per alzarsi e scappare via, via da quel confronto. Ma le parole di Joe lo fecero arrabbiare.
«Avere paura non significa essere debole»
«Allora perché tu non ne hai?!»
Era Joe che doveva aver paura, e invece no. Era lui quello spaventato. Quello che aveva bisogno di qualcuno su cui poggiarsi. Non era giusto.
«Perché so che va tutto bene»
«Non va tutto bene! Tu stai per morire!»

Caleb era di nuovo in ospedale. Era andato di nuovo a trovare Joe. Era di nuovo seduto su quel lettino, vicino all'amico. Rimasero in silenzio una, due, tre ore. Il silenzio non dava fastidio. A nessuno dei due.
«Non ci sarai più...»
Sembrava che Caleb avesse realizzato solo in quel momento il significato della parola "morte", ma Joe sapeva che l'amico l'aveva capito da tempo. Stava solo dicendo ciò di cui aveva paura.
«Non ci sarò, no. Se muoio, e se la morte è la fine, dubito che ci sarà un regno dei morti da cui tornare»
«Non è giusto...»
«Cal-»
«Non dire niente! Non è giusto e basta! Tu... Tu non puoi morire! Non per colpa di uno stupido cancro! Non è giusto! Non... Non... Ho bisogno di te... Non ci sarai più... Non... Joe non morire...»
«Sai che non posso non morire solo perché me lo chiedi tu... Cal, non ci sarò più. E va bene. Deve finire, quindi finirà. E ce la farai anche solo. Sei forte, baka. L'ho visto. Va bene così, okay?»
«Smettila di dirlo! Perché ho più paura io della tua morte che te?!»
«Perché la mia vita è breve, ma è bella. Ho avuto un migliore amico stronzo, antipatico, chiuso, problematico a cui voglio molto bene e che nonostante stia soffrendo, viene tutti i giorni a tenermi compagnia. Un baka stronzo con cui mi sono divertito, con cui ho giocato e che mi starà vicino quando morirò. Sei più tonto di quanto pensassi. Non ho paura perché tu sei qui comunque, a volermi bene. E vivrai anche per me, no?»
Caleb non disse niente. Abbracciò semplicemente l'amico, per la prima volta in 8 anni.

Caleb arrivò in ospedale, come ogni giorno. Entrò nella solita stanza, ma qualcosa era cambiato. Era vuota. Uscì, in silenzio. Qualche lacrima scese, silenziosa. Adesso era solo.

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