Capitolo 4

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Esco dal bagno, era mattina tardi, quasi mezzogiorno ormai, come al solito non mi alzavo prima.
Avevo il turno a lavoro oggi dalle dodici alle sedici.
Una volta indossata la divisa vado di corsa verso lo stabilimento, non potevo permettermi di fare tardi anche lì...

< Possibile che tu non sappia fare proprio niente? >
Vengo mandato a casa quasi a calci, il capo aveva detto che a quanto pare non era giornata, ma che sarebbe stata l'ultima volta per me ad avere il privilegio di poter ritornare dopo una sparata del genere; tutto perché ho sbagliato uno stupido ordine.
Avrei voluto mandarli una volta per tutte a fanculo ma non potevo permettermelo, sono bravo a danzare sì, ma non mi ci riuscirei a mantenere un appartamento da solo, per quanto possa essere definito "appartamento" il mio.
Ad ogni modo, iniziai a dirigermi verso casa, voltato l'angolo e continuando a camminare, mi giro alla mia sinistra, mi ricordo di questo posto, di queste vetrine, mi ci specchio...

L'unica cosa che riesco a vedere e sangue, dappertutto, mi ricopre la faccia, non so che fare, sento le lacrime che scendono calde sulle mie guance, bruciano sulle ferite,
< Sgualdrina obesa ora come ti senti? Sei bellissima sai così? ma stai sicura che comunque non te lo vuole mettere in culo nessuno, nemmeno i barboni, sparisci, ammazzati, quelle come te non servono a nessuno. > mi trovo per terra all'improvviso, sbatto la schiena, mi manca il fiato, li sento ridere di me, tutti insieme, li vedo puntare il dito, nessuno, nessuno si ferma ad aiutarmi. Chiamo mia madre, ma so che dalle mie labbra non esce un solo suono, e anche se lo avesse fatto non avrebbe mai potuto raggiungermi, speravo, allora, fosse la volta buona per me di raggiungere lei...

Non riesco a trattenere le lacrime, le vedo, sporche, a segnarmi le guance di nero, colpa della matita.
Riprendo a camminare molto più in fretta di prima, dovevo tornare a casa, sapevo che di lì a poco sarei finito a terra se non fossi corso via.
Mi destreggio fra le persone cercando di non colpire, per fortuna il cappello che indossavo mi copriva il viso che nemmeno osavo sollevare nuovamente.
Arrivato nell'androne del palazzo incomincio a premere freneticamente il pulsante per richiamarlo, lo odiavo, odiavo questo chiasso, non riesco a liberarmi di questi pensieri, mai. Continuano a ritornare nella mia mente anche dopo anni ed anni, a tormentarmi, che sia di notte o di giorno. La cosa che più odio è il fatto che le persone continuano ad essere così cattive e subdole, che se la prendono sempre con chi sanno che nessuno andrà a difenderli perché sono soli e sono deboli; riescono a scavare dentro di loro e a trovare sempre ogni fottuta volta, quel tasto dolente su cui premere e affondare e rigirare il dito fino a farti gridare e desiderare di distruggere qualsiasi cosa tu abbia li davanti a te, a farti guardare il mondo solo come una grande ed enorme gabbia in cui sei rinchiuso e ti senti soffocare, tanto che l'unica cosa che desideri è farlo davvero.
Sono grato a mia madre che mi fece scoprire la danza, che come lei, desiderava avessi anche io un posto in cui rifugiarmi quando la visione di mio padre che la faceva sparire in quella cucina da cui sentivo venire solo urla mi ricorreva. Quando non riuscivo a togliermi dalla testa le parole di quelli che sarebbero dovuti essere miei amici, quelli con cui avrei solo dovuto giocare a palla e invece trattavano me come se fossi il loro gioccatolo, come se i miei sentimenti fossero un loro gioccatolo.
Sapeva che le assomigliassi tanto, sapeva che sarei stato, come lei, uno di quelli che non avrebbero avuto qualcuno a cui raccontare, a cui parlare di tutto, una via di fuga e allora provò a consigliarmene una. Nonostante sperasse che un giorno, trovassi anche io la mia persona.
E le sono grato perché solo così riuscì a salvarmi la vita.

Effettivamente sono solo, ancora, come se il mondo si fosse dimenticato di me, nessuno che mi chiede come sto, nessuno che mi da il buongiorno o che mi chiede di porgergli una guancia per ricambiare con una carezza. Non parlo mai, "è timido" dicono, nemmeno immaginano cosa c'è qui dentro.
E allora penso, forse avevano ragione quando dicevano che nessuno avrebbe mai voluto uno come me, quando nessuno mi avrebbe mai amato o apprezzato per quello che ero. Per quanto possa dire che non mi interessa cosa pensano gli altri, per quanto possa fingere di essere il più menefreghista sulla faccia della terra no, non posso dire che non faccia male tutto questo, perché mentirei se dicessi che infondo non ci spero davvero più, mentirei se dicessi che non mi sentissi deluso da tutto ogni attimo che passa, mentirei se dicessi che questo vuoto che porto dentro di me non mi stia corrodendo e mentirei se dicessi che infondo mi va bene così.
Perché Dio, non va bene, non va bene per niente. Sono arrivato al punto in cui per colpa delle persone ho delle ferite dentro irriparabili, che non ho le forze per alzarmi dal letto la mattina ne la pace per addormentarmi presto la sera. Sono al punto in cui ho paura di guardarmi in uno specchio o per niente voglia anche solo di aprire bocca per mangiare qualcosa, e ammetto, che da soli è difficile sopportare tutto questo. L'uomo è un animale sociale, non è vero che si basta da solo.
Sono consapevole di avere anche paura in realtà, di mostrare a qualcuno tutto quello che ho dentro. Perché so che certi pesi non sono per tutti, e non voglio, che quella persona scappi una volta alla luce di tutto, di ciò che sono davvero.
Coesistono in me il desiderio di raccontarmi a qualcuno e la paura di scoprirmi troppo e spaventare, il loro contrasto mi confonde, mi angoscia, mi stanca.

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