Capitolo 8

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Oggi avrei avuto lezione con lui dopo il lavoro, avrei dovuto fare le corse per arrivare in orario.
Da un lato non mi andava di andarci, ma dall'altro la curiosità non mi spingeva, mi pregava di andarci.

Cammino per le vie della città a grandi falcate, non dovevo ritardare, più che altro, non volevo.
Arrivo in perfetto orario, stranamente, lui era lì fuori con la borsa in spalla, appena mi vede un sorriso si fa spazio sulle sue labbra.
< Sei arrivato finalmente. > mi dice, squadrandomi nuovamente dalla testa ai piedi, fosse stato qualcun'altro mi sarei sentito a disagio ma il modo in cui lo fa lui non ne mette. Più che giudicare, osserva, mi osserva.
< Finalmente? > chiedo leggermente confuso dall'espressione usata dal ragazzo.
< Sì, aspettavo arrivassi anche tu per entrare. > smette di sorridere per passarsi poi la lingua nell'angolo della bocca; probabilmente qualcosa gli sta dando fastidio lì, oppure è un semplice vizio.
< Non c'era bisogno, Ten. > rispondo, non con cattiveria ne freddezza, penso davvero che non debba aspettare me, non è così caldo ancora qui fuori.
< Questo lo so, ma meglio farlo qui che chiuso lì dentro da solo. > l'espressione sul suo viso cambia, sembra essere tornato il ragazzo altezzoso di sempre, forse le mie parole sono state fraintese, o forse non c'entro nulla io e mi impressiono...
Infondo credo che nessuno mi ascolti davvero così seriamente da cambiare umore in base a ciò che pronuncio.
< Ora sono qui però, andiamo no? > sforzo un sorriso, non ne ho voglia, ma magari avrebbe ricambiato e da quello tornato come all'inizio della nostra breve conversazione, ma non è così, annuisce leggermente con il capo e silenziosamente sale i pochi gradini dell'ingresso, lo seguo.

Ci stiamo preparando agli angoli opposti della sala sotto lo sguardo della nostra insegnante, mi guardo per un attimo nel riflesso dello specchio, ma chiudo gli occhi meno di un paio di secondi dopo, prendo un respiro profondo, mi alzo e mi posiziono per iniziare il riscaldamento, la solita sequenza di passi e azioni.
< Raggiungete il centro della stanza, per favore. > ci chiede l'insegnante, eseguiamo la richiesta e ci mettiamo l'uno di fianco all'altro, mi giro leggermente e noto la sua postura perfetta, a differenza mia, che come al solito sto più rilassato con la parte alta del busto e una gamba più distanzata rispetto all'altra, non unite.
Dopo qualche direttiva e un breve discorso ci spiega che oltre all'imparare la coreografia avremmo dovuto fare qualche esercizio per incrementare la complicità, il contatto anche molto ravvicinato, la coordinazione e cose del genere.
L'idea non mi entusiasmava, mi conosco, fatico a fidarmi presto, perciò molto probabilmente per colpa mia sarà tutto molto più lento.
Sento il cuore battere frettolosamente, l'ansia mi stava prendendo, abbasso lo sguardo e cerco di spostare la mia attenzione su altro...

"Sei un ometto così forte, il mio ometto"

L'insegnante ci spiega in cosa avrebbe consistito il primo esercizio, dovevamo prima di tutto stabilire una connessione emotiva secondo lei, perciò ci mette uno di fronte all'altro con il compito di guardarci negli occhi per almeno un minuto.
Si vede dai suoi che non lo trova utile, eppure allo stesso tempo c'è un pizzico di curiosità, non so esattamente di cosa.
Dopo meno di dieci secondi lo avevo già spostato almeno 3 volte, odio il contatto visivo, e credo l'abbia capito: motivo per il quale gli è comparso uno strano sorrisino in faccia, che guardo con rabbia, giusto l'attimo prima di accorgermi che il minuto era passato.

Dopo vari giochini, la lezione finisce, per fortuna non c'era stato bisogno di contatto fisico, non era giornata nemmeno per quello a cui sono abituato sul "lavoro".
Mentre ancora sono seduto a terra sento uno sguardo quasi corrodermi le spalle, mi giro e noto i suoi occhi volti verso la mia persona, vorrei capire perché mi guarda così spesso, non ho né niente di bello né di interessante. So ballare bene, questo è vero, ma non dovrebbe essere interessante dato che lui lo fa meglio di me.

Esco dall'edificio per primo, avevo praticamente sprecato un pomeriggio.
Mi sentivo come un peso nella testa tanto da farmi quasi desiderare di sprofondare pur di non sentirlo più, mi stavo facendo troppe paranoie, mi accorgo di avere una scarpa slacciata, perciò mi accovaccio e la sistemo.
Sento qualcuno fermarsi di fianco a me.
< Serve una mano? > mi chiede una voce familiare, mi volto.
< Ten. > lo guardo, mettendoci un po a realizzare che fosse davvero lui.
< Vedo che ti ricordi il mio nome. > ridacchia, penso sia la prima volta che glielo sente fare, aveva un sorriso che era difficile non notare, grande e luminoso com'è.
Mi alzo, < È un soprannome.. > dico, leggermente confuso, a me si era presentato come Ten, ma non agli altri.
< Lo so, lo so. > annuisce < ma lo preferisco. > mi dice con fermezza, ma gentilmente.
Lo guardo, avrei voluto fargli mille domande in realtà, ma credo fosse più per il fatto che ho qualcuno con cui parlare ora piuttosto che per del vero interesse, perciò preferisco non farlo.
Ricomincia lui a rivolgermi parola:
< Per tornare a casa vai per di qua giusto? > indica con il dito la strada alla nostra sinistra lasciando la mano a mezz'aria.
< Si perché? > rispondo, nuovamente confuso, che volesse accompagnarmi?
< Ti da fastidio se vengo con te? Devo andare da una amica di mia madre a prendere non so cosa ma so che abita lì vicino. > mi dice guardandomi dalla testa ai piedi come l'altro giorno; vorrei davvero capire cosa gli passa per la testa.
Attendo qualche secondo, riflettendo, dirgli di no sembrerebbe scortese, infondo è stato gentile con me, non avrei motivo di non ricambiare il gesto.
< D'accordo. > dico educatamente ma con il solito tono distaccato, non amo prendere subito confidenza con le persone, più che altro mi è difficile, non riesco a fidarmi di nessuno dopo quello che ho visto.

Dopo qualche minuto di silenzio, arrivati a metà strada noto che le sue labbra si socchiudevano e richiudevano di continuo, come quando di solito qualcuno vuole dirti qualcosa ma non ha il coraggio di farlo, avrei voluto chiederglielo ma magari lo avrei messo a disagio.
< Da quanto tempo balli? > quelle parole ruppero quel nostro freddo silenzio.
< Fin da bambino. > risposi, senza, sbilanciarmi troppo.
< Deve essere per quello che sei così sicuro quando balli. > dice...
Il fatto che avesse differenziato la sicurezza da tutti gli altri aspetti mi sorprende, deve saperne e averne visti tanti di ballerini.
< Quel genere di salti esercitandosi molto, diventa difficile sbagliarli, no? > rispondo.
< Infatti non erano sbagliati, ma non erano nemmeno perfetti. > si volta verso di me, < eppure non ti si riusciva a togliere gli occhi di dosso. > sorride leggermente, era tornato quel suo modo odioso di atteggiarsi.
< Perché allora l'insegnante non me lo ha detto? > lo guardo, infastidito. L'unica cosa che fino ad oggi ero certo di saper fare era danzare, ora lui arriva e non solo stravolge un intero sistema accademico ma anche me.
< Perché il modo in cui tu sbagli li rende più belli. > risponde.

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