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Tic, tic, tic.

Erano quasi le sei e ancora niente. Relegato attorno a uno di quei lunghi tavoloni bianchi assieme ad altri ragazzi impegnati a preparare la versione di latino o l'imminente parziale di analisi, Riccardo continuava a fissare il vuoto. Tamburellava nervosamente la biro sul foglio in cerca dell'ispirazione ma non riusciva a buttar giù neanche una parola. Sembrava proprio che tutte le sue buone idee si fossero volatilizzate di colpo in seguito al pranzo. Mentre si stava allontanando dal centro di Modena per imboccare la tangenziale, una telefonata di suo padre lo aveva costretto a ritardare tutti i suoi piani:

«Ciao Ricky, sei a casa? Ti va se pranziamo insieme? Sono appena tornato da Parigi e ho qui un pensierino per te... L'ha fatto Adèle.» Così senza particolare entusiasmo, il figlio aveva invertito il senso di marcia e si era immesso nuovamente sui viali per un boccone con lui alla Vecchia Pirri. Avevano mangiato in fretta; due tagliate di manzo con verdure grigliate, annaffiate da una bottiglia di acqua naturale ghiacciata. Nessuno dei due aveva chiesto il dessert: stessi gusti, stesso temperamento, stesso sangue. Dolce, troppo dolce. Tanto che per colpa della glicemia alta, compiuti i sette anni, Ricky aveva dovuto rinunciare alle torte di compleanno ed era stato obbligato ad assumere quotidianamente farmaci, per evitare di incorrere in una patologia diabetica seria. Poi a otto, Roberto lo aveva preso da parte e stringendogli forte le mani, gli aveva detto: «Ricky, lascio tua madre perché non la amo più.» E allora lui aveva creduto che tutta quella storia della famiglia, delle torte e del diabete si trattasse soltanto di una burla e aveva smesso di credere nel matrimonio quanto di limitarsi negli zuccheri. Che gli importava se la storia che non sarebbe arrivato vivo a quarant'anni fosse una bugia, oppure no? Intanto quel giorno suo padre se n'era andato per davvero, pensava. Era saltato dentro alla sua Mercedes Station Wagon ed era sparito tra le curve sterrate di via Rivolta per volare dritto in Francia, risposarsi con Magda e fare da genitore alla sua nuova sorellastra. Non era tornato neppure in seguito a quell'incidente; dopo aver saputo che lui era stato ricoverato d'urgenza e che i servizi sociali avevano dichiarato sua madre incapace di seguirlo. Nemmeno quando Rosaria lo aveva chiamato per assumersi la sua custodia. Ricky aveva dovuto aspettare che Roberto divorziasse di nuovo per rincontrarlo; ma persino dopo esser rientrato in Italia in quei dieci anni di tè e di pranzi consumati di fretta attorno al tavolo di un locale qualsiasi – nella casa di Verdicella non l'aveva mai più rivisto. Salvo nella fotografia sul comò della sala; quella in cui appariva ancora come il giovane marito coi capelli castani e gli occhi vispi di cui Daniela si era innamorata. La stessa che tutte le sere ora sua mamma guardava con rammarico quando terminata l'ennesima bottiglia di Merlot si alzava insonnolita dal divano e faticava a infilare le scale per andare a letto. Sì, agli occhi di Riccardo l'immagine del padre era proprio simile a quella impressa su una polaroid ingiallita. Una realtà muta e distante di cui non conosceva nulla eccetto il volto. In tutti quegli anni Roberto non si era mai dimostrato un genitore da grandi effusioni ed elogi e anche prima di sparire all'estero e risposarsi con quella giovane massaggiatrice brasiliana, lo aveva sempre educato con formalità e reverenza. Non un sorriso, un cenno di approvazione, un abbraccio. Fin da quando era piccolo, il signor Deggi si era interfacciato al figlio solo per convenzionalità o per rimprovero, senza mostrare alcuna voglia di intessere con quello un dialogo costante e sincero. Era troppo egoista per farlo. Troppo volubile. Sarà sembrato un paradosso eppure, per quanto passasse le giornate a disegnare edifici magnifici, nella sua esistenza quell'illustre architetto di provincia non era mai stato capace di sedimentare alcuna certezza. Qualsiasi legame affettivo avesse tentato di erigere nel corso degli anni era puntualmente crollato al suolo: prima il suo matrimonio, poi il rapporto con la sua progenie; persino le relazioni con le sue numerosissime amanti duravano sempre meno del previsto. Roberto era un ponte senza travi; un grattacielo senza fondazioni e anche ora che si era risposato, tutti si chiedevano quando sarebbe sprofondato di nuovo su se stesso. Cambiava idea, arredamento e moglie più spesso del vestito a giacca ma nonostante fosse disposto a calpestare il prossimo, pur di appagare le volubili pretese del suo capriccioso io, il padre di Riccardo non si amava per niente, anzi. Detestava la sua fragilità a tal punto che ottemperare ai rigidi canoni imposte dall'alta società, gli era sempre sembrato l'unico modo per apparire vincente persino ai suoi stessi occhi. Così da quarantasette anni a quella parte ogni mattina indossava la sua maschera di artista eclettico e facoltoso e passava il tempo libero comprando mobili costosi, belle donne e amici con le sue prodigalità nel solo tentativo di sentirsi un po' meno insignificante. Durante la settimana lavorava in studio dodici ore al giorno, poi il weekend andava fuori in barca a vela, si rilassava nei centri benessere o prendeva un aereo per accompagnare qualche suo amico milionario in Sudamerica a caccia di giaguari. Quando poi toccava a lui invitare qualcuno di loro a cena, ecco che puntualmente estraeva dal frigo una bottiglia di Cristal Rosé assieme a un vassoietto di crostini e domandava: «Foie gras?» Quanto gli piaceva dirlo; quel paté era sempre stato il suo cavallo di battaglia. Era così francese; così raffinato. Una vera delizia per gli occhi e per il palato. O almeno si augurava che lo fosse per quello degli ospiti, dato che lui era allergico al fegato d'oca e tutte le volte che lo preparava, finiva col rosicchiare soltanto la crosta del pane. Tanto mica importava che fosse realmente appetitoso; per lui bastava che sembrasse costoso e che venisse servito in abbondanza. E così anno dopo anno, bottiglia dopo bottiglia, Roberto Deggi continuava ad annaffiare con lo champagne le sue relazioni in maniera costante e impersonale, proprio come faceva la mattina con le piante del suo terrazzo: i colleghi di studio, i compagni del Modena Golf Club; l'estetista del centro termale o la receptionist dell'hotel di St. Moritz. Che si trattasse di lavoro, di hobby o di sesso; che lo frequentassero per timore, interesse o popolarità; Roberto si preoccupava solo che uscite dalla porta o dal suo letto, quelle persone continuassero ad alimentare la sua vanità, raccontandolo in giro come un uomo invidiabile. E se per caso si accorgeva che qualcuno mancava il suo compito o non gradiva il suo vino, se ne sbarazzava assieme ai fiori secchi sul tavolo, salvo acquistare nuove bottiglie e nuovi ammiratori la settimana dopo, per continuare a darsi a bere che anche la farsa che si era costruito attorno fosse di ottima annata. In fondo non lo si poteva biasimare del tutto: in mezzo a tutte le macerie che desolavano il suo passato, le sue apparenze erano rimaste l'unica finzione salda a cui aggrapparsi.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Apr 01, 2020 ⏰

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La rana e lo scorpione - libro primoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora