Capitolo 3

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Oramai ero abituata agli aghi. Non sono mai stata una fifona a dire la verità. Non ho ai guardato gli aghi come se da un momento all'altro avrebbero potuto prendere vita e impalarmi, ma puntura dopo puntura spariva anche il piccolo fastidioso pizzicore che sentivo.

"Tutto okay Amanda?"

"Certo Annie, sto alla grande", un sorriso un po' forzato e quello sincero di Annie.

Annie era la mia infermiera. Lo è sempre stata sin dalla prima volta che me l'hanno diagnosticata. Quell'anno compiva cinquant'anni, non li dimostrava per niente. Annie era forte, mi piaceva. Quando mi guardava, non provava pena per me. Forse perchè lavorando in ambito ospedaliero era abituata a quelli sguardi da "Sì, sono malata però nulla di importante". Mi diceva sempre che tra tutte le persone che ha assistito nei suoi anni di servizio, io avevo una luce diversa. Diceva che ero la sua non malata preferita.

"Brendon come sta?", mi aveva chiesto mentre mi tamponava con un batuffolo di cotone la piega del braccio, dove poco prima ci aveva affondato quel dannato spillo argenteo appuntito.

"E' un po' in pensiero per sua sorella sai, quella che è rimasta vedova pochi mesi fa."

"Kimberly?"

"Ma no Annie, Lucy."

"Ah già!"

"Siamo orribili", ammisi.

"Perchè dici così?"

"Perchè stiamo spettegolando di una povera vedova", mi tenevo stretto il batuffolo di cotone.

"Ma questo non è spettegolare Amanda. Io odio parlare male degli altri, lo sai", era vero. Annie odiava parlare male degli altri. Si sarebbe frustrata con un flagello ricoperto di chiodi se le fosse scappata una sola parola che avrebbe potuto screditare una persona. Un'altra qualità che amavo di lei: diceva sempre la verità, anche quando sapeva che avrebbe potuto fare male. Mi diceva sempre che la verità era simbolo di maturità e saggezza. Diceva che nascondere la verità era inutile, perchè sarebbe sempre venuta a galla. Mi faceva sempre quel macabro paragone con i cadaveri che gettavano nei fiumi: "I cadaveri vengono sempre a galla, Amanda", diceva. A volte mi faceva ripensare sulla sua personalità angelica, ma non ci facevo caso.

"Beh, in effetti. Questo posto mi annoia da morire", le stanze d'ospedale erano la cosa che odiavo di più di quella malattia. Ho passato parte dei miei anni tra quelle quattro mura bianche e smorte.

"Chiederò di dipingere sulle pareti tanti arcobaleni allora."

"Oh ecco, sarebbe una soluzione perfetta!"

"Sei tremenda", mi disse di sfuggita prima di scomparire fuori dalla stanza.

"Amanda, resta papà qui. Io ho un caso importante su cui lavorare a lavoro", mi sfiorò la mano e mi strizzo l'occhio. Mia mamma aveva rinunciato all'affetto sempre da quella sera. Non mi aveva più abbracciata, chiamata Amy, dato un bacio sulla fronte prima di dormire. Aveva rinunciato a qualiasi forma di affetto. Non gliene facevo una colpa. Pensavo che, egoisticamente, avrebbe sofferto di meno quando sarebbe arrivato quel giorno.  Inoltre, insistevano a trattarmi come una bambina, come quando avevo dodici anni. Non mi lasciavano sola neanche per un secondo, ma nona vrei mai obiettato: presto non avrebbero più potuto prendersi cura di me, perciò gli lasciavo credere che non mi fossero attaccati come avvoltoi.

"Mamma", la chiamai prima che uscisse dalla stanza.

"Si?", si voltò.

"Quando torni da lavoro, riposati. Posso farmi un giro nel frattempo."

"Beh, po-"

"Mamma, niente scuse. Hai bisogno di riposo, lo sento che dormi poco. Ti sento quando la notte ti alzi e vai in cucina a bere il caffè."

"Ti aspetterò a casa", gli occhi pieni di tristezza come se le avessi urlato contro che era una mamma pesssima.

"Mamma, un ultima cosa."

"Dimmi Amanda."

"Ti voglio bene", mi uscirono quelle parole e mi sentì libera. Mi ero tolta un peso.

"Anche io te ne voglio Amy, te ne vorrò per sempre", avrei giurato di aver visto una lacrima sfuggirle sulla guancia scarna. Non aspettò una mia risposta e si chiuse la porta alle spalle. Mi aveva chiamata Amy. Ammetto di aver sorriso. Avrei voluto non dover andarmene, avrei voluto passare tutta la vita con mia mamma. Avrei voluto poter cucinare pizze bruciacchiate, guardare film strappa lacrime, scambiarci i vestiti, dividere i trucchi, parlare di ragazzi... Avrei voluto non lasciarla in questo modo, così presto.

"Guerriera? E' permesso?", due battiti sulla porta di legno massiccio e la figura di mio padre nella stanza subito dopo.

"Certo comandante", sorrisi e mi misi seduta sul lettino.

"Come te la passi?", chiese sedendosi accanto a me.

"Ne ho passate di peggiori", risi.

"Annie dice che tra poco passerà il dottore per darti delle notizie", sbiancò all'istante.

"Notizie brutte?"

"Dicono che stai peggiorando a vista d'occhio Amanda, vogliono cominciare i cicli di chemioterapia", mi irrigidì. Ne hanno sempre parlato, ma la ritenevano un'opzione esagerata perchè, in fin dei conti, stavo bene. Perdevo pochi capelli,non ho più avuto insufficienza respiratore dopo quella volta, il peso era di due chili sotto la norma, i rigetti erano insignificanti ed io non mi sentivo più stanca di quanto non lo fossi stata prima.

"E' grave allora", vidi, per la prima volta, la realtà che mi stava chiamando all'attenzione.

Scoppiò in lacrime, mio padre: il labbro inferiore gli tremava come se avesse vita propria, gli occhi celesti, che avevano ispirato la formazione dei mie, vennero sommersi da un mare salato.

Quell'uomo grande e forte, che simulava assieme a me l'arruolazione nell'esercito, ora piangeva sulla mia spalla. Quell'uomo era mio padre, e per quanto uomo potesse essere restava sempre mio padre.

Io non piansi. Avevo l'adrenalina che mangiava ogni mia pura in quel momento. Inoltre, vedere mio padre in quello stato era più triste di ogni lacrima che avrei potuto piangere.

Ricordami per sempre Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora