capitolo 7

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Sono le dodici e mezza e la serata si sta facendo movimentata. Dopo aver finito tre birre Aroon e Emma si sono buttati sulla pista per ballare come scatenati sulle note di canzoni anni ottanta. Scott sta aiutando la sua amata a servire ai clienti che piuttosto ubriachi ogni tre minuti intonano un coro da cantare e insultarsi a vicenda. Morley e Jane sono tornati tornati a casa perché li aspettava la baby sitter di Olivia, che ho scoperto essere loro figlia. Lei è rimasta incinta a quindici anni ,quando si conoscevano solo da un mese, per colpa del suo fidanzato di allora che non ha voluto accettare la figlia e così lui lo ha sostituito facendo da padre alla bambina, che ora compie quattro anni, e anche se solo dopo si sono innamorati e hanno scoperto quanto cose avevano in comune. Stranamente mi sto divertendo e non pensavo di poterlo fare, un luogo così ambiguo rispetto al mio solito rifugio, la mia camera, padroneggiata da quella calma ingombrante che farebbe sentire un estraneo anche chi ci abita dentro. Così tanti visi nuovi si stanno lentamente presentando a me che non sono sicura domani mattina riuscirò a ricordarmi, ma qualcosa che certamente non scorderò sono le emozioni che sto provando, quel senso di curiosità che mi fa venire voglia di assaggiare tutte le bevande dentro tutti i bicchieri sul tavolo, di ballare mossa da qualsiasi scossa o vibrazione di euforia che il mio corpo riceve dalle luci neon e curiosità verso la persona che per tutto quel momento era rimasta al mio fianco. Così vicino eppure così lontano, non sapevo niente di lui, avevo avuto una semplice conversazione di poche parole eppure la ricordavo così vividamente, così intensamente. Mi girai verso di lui e cercando di farmi sentire nel trambusto dissi ad alta voce "Okay, devi dirmi di più di te." Forse era la forza di volontà alimentata da quell'audacia che ti regala l'alcool a darmi coraggio, ma in quel momento non aspettavo nient'altro di conoscere lo strano e misterioso essere seduto su una vecchia e lacerata sedia marrone nel mio stesso tavolo. "Dimmi cosa vuoi sapere" il suo sguardo sempre accogliente e sorridente non sembrava così emblematico come ogni sua parola lasciava intendere. "Mmm...hai sempre vissuto qui a New York?" chiesi sforzandomi nel cercare una domanda, che nel momento del bisogno vengono sempre a meno. "No, in realtà no. Mi sono trasferito qua con la mia famiglia all'età di cinque anni, a mio padre era appena stata fatta un'offerta di lavoro e così ha approfittato dell'occasione." rispose un po' malinconico. "Non mi sembri troppo contento, però." affermai seguendo il suo sguardo e cercando di interpretare ciò che aveva appena detto. "Be...vivevamo in un piccolo paesino sperduto nel South Dakota e nel trasferirci abbiamo dovuto salutare i nostri parenti, mia nonna in particolare, sai ero molto legato a lei. Avrò speso più tempo con lei che con chiunque altro." un piccolo sorriso si formò sulle sue labbra probabilmente impregnato dai ricordi dell'infanzia che si rituffavano nella mente. "Mia nonna è morta." risposi subito senza pensarci molto, guardando il fondo del mio bicchiere. Una fragorosa risata partì dalle sue labbra "Di certo sai come alleggerire i momenti". Sorrisi anche io, un po' imbarazzata dalla mia uscita senza senso. "Bene ora lascia che ti faccia io una domanda.". Lo guardai con sincerità come chi non ha nulla da nascondere. "Ti piace molto New York?" Pensai un po' e nel frattempo buttai i miei occhi sulla porta verde, un po' rovinata dal tempo, a vetri del locale, nonostante non riuscivo a ad avere una chiara visuale del mondo fuori da essa riuscivo a scorgere e visualizzare nella mia mente i gruppi di ragazzi che camminavano schiamazzando, urlando e ridendo, vivendo la loro gioventù. "Si, credo di si. Ha una strana bellezza. Credo che New York ti ricordi ogni giorno di quanto piccoli siamo sulla terra. Io e te non siamo altro che due ragazzi dentro ad un bar, io e te potevamo essere fuori, a correre a piedi nudi per un parco urlando al cielo tutto ciò che abbiamo nel cuore, potevamo essere dentro ad un ufficio con trent'anni di più a spendere anni della nostra vita intrappolati, dentro a un piccolissimo cubicolo che non avrebbe avuto il nostro nome dopo il nostro licenziamento, come le nuvole passeggere in un cielo di primavera. Poco importa dove siamo, cosa facciamo o cosa vogliamo. New York ti ricorda ogni giorno che non vali niente, se non fossimo stato noi quelli dentro a questo bar, sicuramente, ci sarebbero state altre persone accomodate su queste stesse sedie, sorseggiando le stesse esatte birre a dire esattamente le nostre stesse parole." Finì il mio lunghissimo discorso, il quale mi fece sentire un po' in imbarazzo, forse ero stata fuori luogo, forse mi ero dilungata troppo. Aaron, che lentamente si era diretto verso il nostro tavolo a metà del mio discorso, mi guardo strano e poi chiese con sguardo sospetto "Non ti sei mica fumata tu una delle mie canne?" Inutile dire che risate furono l'unica reazione che provocarono in ognuno di noi.

Ero appena entrata in casa, mia madre leggermente preoccupata per il mio arrivo era sul divano che mi aspettava con in braccio Chloe che dormiva profondamente accovacciata tra le sue braccia. Un piccolo sussurro si fece largo nella stanza vuota "Ti sei divertita?" Annuii con il capo per non fare rumore e, dopo aver aspettato che mia madre tornasse a letto e riportasse mia sorella in camera, mi stesi sul letto morbido che mi era mancato per tutta la serata.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Jan 07, 2022 ⏰

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