Capitolo 3: Vitae

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Il sole sorse puntualissimo alle sei di mattina.
La calda e potente luce della stella madre diede nuovamente vita alle piante, agli animali e agli umani.
Che cosa dire del mondo in quel sabato 17?

Aumentavano ulteriormente le tensioni tra il presidente degli Stati Uniti Mark Mc Jewel e quello russo Igor Smirnov, per il primato economico in Europa.
La violenza e la criminalità dilagavano come la peste.
Più della metà della popolazione mondiale era malnutrita, analfabetizzata o in pericolo di vita. Di conseguenza il divario tra i paesi ricchi e quelli poveri era sempre più netto.
La Terra veniva deturpata, sventrata e sfruttata a dismisura, come una mela con un verme, tanto che l’ambiente dava segni di cedimento.
Gli umani stessi hanno paura dei loro simili di specie, ma diversi per colore di pelle. Con il tempo, valori come umanità, rispetto, onestà, fedeltà, sono andati perduti, generando di conseguenza smarrimento e confusione negli uomini. Questi cercano risposte nella politica, la quale, in verità, seve solo a distrarli da questo mondo che cade lentamente, facendoli concentrare sui problemi del presente, e non del futuro.

C’è ancora, però, qualcuno che crede nel bene, crede negli uomini e cerca in tutti i modi di abbattere xenofobia, nazionalismi e proteggere l’ambiente. Purtroppo, queste persone rappresentano solo una piccolissima parte dell’umanità.
Il quadro non era dei migliori.
-
In un ospedale italiano, i raggi del sole penetravano dalla finestra della stanza numero 34, illuminandola. Il paziente al suo interno, Marco Corte, era in coma da un mese. Nessun segno di vita. Solamente il lento muoversi della pancia dava speranza. La testa era fasciata, gli occhi bendati, il corpo pieno di garze e cerotti. Gli unici suoni che si potevano udire nella stanza erano quello dell’elettrocardiogramma e di un orologio, un classico a quarzo, posto di fronte Marco. L’oggetto in questione scandiva nettamente tutti i secondi, facendoli sembrare eterni.

Ma oramai cos’era il tempo per Marco, un’illusione? La realtà? Probabilmente il susseguirsi di attimi tutti uguali, che differivano leggermente a seconda dei parametri vitali o dal livello delle flebo. Forse il tempo era, per lui, l’alternarsi delle visite dei parenti e della sua fidanzata, Elena. Il tempo era l’insieme delle lacrime versate vicino a quel letto, le preghiere pronunciate a fil di voce, gli sguardi dei medici che l’osservavano. Il tempo era una prigione perenne e puntuale che non voleva velocizzare il risveglio di Marco. Anche il coma era queste cose, o forse, il concretizzarsi di quelle idee di tempo.

Alle 8:11 entrò nella stanza Elena, con un’azalea in mano. Cercò, come ogni volta, invano, segni del miglioramento di Marco. Allora le cadeva sempre una lacrima di sconforto, ripensando alla loro storia. Si conoscevano da cinque anni, quando lei era al primo anno di università e lui all’ultimo. La prima volta che si incontrarono era per scambiarsi degli appunti di biochimica, ma poi si diedero un altro incontro, fino a che non decisero di approfondire il rapporto. Non era quell’amore passeggero, che caratterizza gli amori giovanili. Loro si amavano veramente. Elena posò l’azalea in una tazza vicino a Marco.

“Che cosa devo fare? Ti imploro, dimmi cosa fare!”, disse Elena a bassa voce. “Questo coma sta diventando una prigione anche per me. Sono giovane, ho tutta la vita davanti a me. Ma è da nove, nove settimane che vengo mattina e sera, sperando in un miglioramento”.
Marco, come una statua, era disteso sul letto incapace di rispondere.
“Sai, non riesco a farmi una vita nuova, non riesco a fare la spesa da sola o andare a casa delle mie amiche. Perché io ti amo Marco. Ma, finché non ti sveglierai, la mia vita sarà vuota, o perlomeno, incompleta…”, disse Elena singhiozzando, e poi aggiunse, tenendogli la mano “Ti prego, amore mio, svegliati”. Nessuna risposta.

Improvvisamente provò un fitto dolore allo stomaco. Il mondo gli stava cadendo addosso. Gli iniziarono ad uscire le lacrime. La pressione aumentò. Non poteva continuare a vivere così. Doveva mettere fine drasticamente a questo problema. Prese un bisturi, trovato su uno scaffale, e lo alzò sopra Marco. Stava ancora piangendo. Doveva, ma non poteva, ucciderlo.
“Marco… ti ricordi ancora… la nostra canzone preferita?”. Ovviamente la risposta non pervenne.
“Faceva così: Tears stream, down your face, when you lose something that you cannot replace…”.
Alzò ancora di più il coltello.
Tears strem…down your face…”.
And I…”.
Elena gettò via il coltello. Era stato Marco a pronunciare quella frase. “Infermiera, abbiamo bisogno di un’infermiera”. Dopo poco ne arrivò una.
“Di che cosa ha bisogno, signora?”. Elena a stento pronunciò” Il mio rag… Ecco, Marco… il paziente ha parlato”.
“Signora, ne è sicura?”.
“Certamente”.
L’infermiera rimosse la benda dagli occhi di Marco, e questi erano sorprendentemente aperti, nonostante qualche cicatrice sulle sopracciglia.

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