Da quando ho tre anni ricordo molto poco della mia famiglia. Se non che mia madre beveva e fumava e mio padre faceva lo stesso. Ho passato più serate a vederli litigare in cucina su chi avesse finito l'ultima bottiglia di cognac che a giocare con i miei amici a pallone.
Da quando ho quattro anni ricordo molto di tutto ciò che riguardava il complementare della mia famiglia. Il mondo fuori dalla porta di casa. Andavo all'asilo del quartiere che era poco lontano da casa mia, ma nonostante questo, i miei genitori si dimenticavano quasi sempre di venire a prendermi perché si addormentavano ubriachi marci sul divano, sul letto o su qualsiasi altra superficie piana che incontravano una volta saturi di alcol. Fu così che dopo i primi due mesi in cui loro si presentavano due ore dopo la chiusura della scuola dove le maestre mi avevo lasciato in consegna alla bidella, la signorina Smith decise che mi avrebbe riaccompagnato lei a casa se madre e padre non fossero arrivati entro la mezz'ora successiva all'ultimo suono della campanella. La signorina Smith era una delle maestre delle classi più grandi, l'unica che evidentemente non aveva nessuno che la aspettava a casa per il pranzo, visto che trascorreva tutto quel tempo senza fare null'altro che leggere un libro seduta sulla panchina nel corridoio dell'ingresso. Una panchina per bambini, ovviamente. Aveva i capelli biondi, gli occhiali neri, gli occhi azzurri. Mi ricordava quelle bambine che si disegnano sempre nei libri per bambini. Dacché ero entrato all'asilo, non ricordavo di averle visto altro in mano che libri. Quanti anni potesse avere non lo sapevo, ma non ero un bambino che si fermava davanti alle domande, così un giorno, mentre aspettavo seduto vicino a lei, glielo chiesi.
"Maestra Smith, quanti anni hai?"
Senza alzare gli occhi dal libro mi disse "Trentuno".
"Trentuno sono tanti?"
"Sicuramente tanti rispetto ai tuoi"
Passammo il resto dei minuti in silenzio e quando scoccarono le tredici e trenta, chiuse il libro e si alzò di scatto. "Giorgio, è ora di andare. Dammi la mano". Misi la mia mano nella sua. Ogni volta che lo facevo mi sentivo come se le stessi affidando la mia stessa vita. Quando a casa i miei genitori mi chiedevano di dare loro una mano era per aiutarli a pulire, a mettere a posto la spesa o per buttare sacchi di bottiglie vuote. L'asilo distava dodici minuti esatti da casa a piedi. Erano i dodici minuti più silenziosi della mia giornata perché la signorina Smith guardava solo la strada davanti a noi. Una volta arrivati davanti a casa, mi salutava e aspettava di vedermi entrare dalla porta verde a vetri. Poi tornava indietro. Anni dopo scoprii che stava a venti minuti a piedi dalla scuola, nella direzione esattamente opposta alla mia.
Il giorno del mio quinto compleanno, mi aspettavo i pancakes a colazione. Mamma sapeva che mi piacevano molto, soprattutto il giorno del mio compleanno, ma non ci fu nessuna colazione. Io mi svegliai tardi con le urla di mia madre che mi diceva che era tardi e quindi non c'era tempo di fare colazione. Mi vestì in fretta e furia, mettendomi due calzini diversi perché non ne trovava un paio di accoppiati. "Tieni, mangia questa per strada, prima che arriviamo a scuola" mi disse mettendomi in mano una merendina al cioccolato di quelle confezionate, dove sulla confezione il cioccolato era cremoso mentre nella realtà era un accumulo grumoso e appiccicoso. Non dissi nulla sui pancakes, nella speranza che mi sarebbero venuti a prendere a scuola e mi facessero trovare a pranzo una bella torta. Ma nemmeno quello successe. Alle tredici a quarantadue salutai la maestra Smith ed entrai a casa. Mamma e papà non c'erano. Per un attimo i miei occhi si riempirono di felicità. "Sono andati a prendermi una torta e un regalo", pensai. Aspettai con ansia il loro ritorno. Quando dal soggiorno sentì una macchina fermarsi nel vialetto di casa e poi il rumore delle portiere che si aprivano e si chiudevano, corsi all'ingresso e li aspettai seduto sulle scale. Entrarono e capii che avevano iniziato a litigare chissà da quando e chissà per cosa, in mano avevano solo le borse della spesa. "Giorgio, vieni a darci una mano". Mi passarono tra le dita pacchi di pasta, fazzoletti, carne, fagioli in scatola, formaggio, marmellata, fette biscottate, riso, tonno, insalata, pomodori, zucchine, latte, una bottiglia di alcol. Nessuna torta, nessun regalo. Sentivo gli occhi riempirsi di lacrime ma feci di tutto per trattenerle. La cena si celebrò nel nostro rituale silenzio e nelle parole della televisione che da sempre era sintonizzata sul canale dello sport che nessuno di noi seguiva. Evidentemente la voce dei telecronisti sportivi calmava gli animi delle due fonti da cui provenivano i miei geni. A cena non litigavano mai. Era quando si spegneva la tivù, il problema. Quando andai a letto piansi e mi addormentai.
Il giorno dopo, era un giorno come tutti gli altri. Ero io ad essere cambiato. Avevo un anno in più. Alle tredici mi sedetti sulla panchina dell'ingresso, ad aspettare. Alle tredici e due arrivò la signorina Smith, si sedette ed aprì un libro. Quello di oggi era diverso da quello di ieri. Questo aveva una copertina gialla con delle scritte verdi.
"Maestra, perché legge così tanti libri?"
"Per salvarmi"
"E da cosa"
"Dalla vita"
"Cosa vuol dire?"
"Vuol dire che sei ancora piccolo, Giorgio"
"E io non mi devo salvare?"
"Per ora no"
"Meno male, perché non so leggere"
Per la prima volta alzò gli occhi da quel libro e mi guardò. Mi sorrise ed io mi sentì come se avessi tutta la faccia dentro al fuoco.
Tredici e trenta. Ci alzammo. Avevo un anno in più e decisi che avevo voglia di parlare.
"Ieri era il mio compleanno"
"E cosa ti hanno regalato mamma e papà?"
"Niente"
Si fermò. Mi guardò un'altra volta.
"Niente?"
"No"
Riprese a camminare. Arrivati davanti a casa successe quello che succedeva tutti i giorni. Fino al giorno seguente, quando alle tredici e due la signorina Smith si sedette vicino a me. Stavolta però mi diede un pacchetto rosso con un fiocco blu.
"Buon compleanno in ritardo, Giorgio"
Ero sicuro che gli occhi mi brillassero. Sciolsi il fiocco e strappai piano la carta, quasi avessi paura che quel momento finisse. Tirai fuori un libro. Non c'erano però molto parole, erano per lo più immagini.
"Per ora puoi guardare le immagini e inventarti una storia tu. Quando l'anno prossimo imparerai a leggere e a scrivere, leggerai la storia che c'è scritta"
"E mi salverò?"
"Sì, ti salverai"
La maestra Smith mi accompagnò a casa, mi salutò e io corsi in camera a guardare il mio nuovo tesoro.
Avevo cinque anni. E mi sarei salvato.
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Una serie di (s)fortunati racconti
Short StoryRacconti dal finale incerto. (in progress)