CAPITOLO 1: Il colloquio

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"Può andare più veloce?" chiesi all'autista intento a guidare il veicolo su cui eravamo all'interno, per portarmi alla mia destinazione.

Sono in ritardo per il colloquio di lavoro, e questa è la terza volta che rifiutano il mio curriculum, e non solo. Non hanno rifiutato solo quello: me.
Chi vorrebbe mai una ritardataria come stagista? Non credo esista qualcuno di così comprensivo da comprendere che al giorno d'oggi gli autisti non sono più molto veloci, bensì a scoppio ritardato.

Dopo che l'autista mi mandò un'occhiata truce da sopra il sedile, presi il mio telefono che squillava ininterrottamente. Schiacciai l'icona verde per far partire la chiamata, dopo aver letto il nome Monica sullo schermo illuminato.

"Ciao, Monica." iniziai incerta. Allontanai il telefono quando sentì la sua voce stridula urlare ulteriormente incazzata. Sono sicura che anche l'autista abbia sentito la sua voce urlare come una gallina.

"Ciao? Make, scherzi?" quel soprannome. Quel maledetto soprannome. Monica mi chiamava così solo quando era incazzata con me, ma sapeva benissimo che io detestavo quel soprannome.
Quel fottutissimo soprannome deve andare al diavolo. Le persone non possono continuare a chiamarmi Make o Ckanzie, io ho un nome: Makeckanzie.

"Make, sono le 9:15, hai il colloquio di lavoro alle 10!" esclamò dall'altra parte del telefono, e ringrazio Dio che fosse sul serio dall'altra parte, altrimenti credo che mi sarei già ritrovata in ospedale.

"Monica, non è colpa mia se l'autista va a rilento." mi giustificai prima che lei possa incolparmi di un qualcosa che non è vero, e non è stato nemmeno svolto dalla sottoscritta. L'autista mi mandò l'ennesima occhiataccia da sopra il sedile, facendomi alzare gli occhi al cielo. "Ragazzina, sarei grato se smettessi di offendermi." brontolò l'autista ancora intento a guardare sulla direzione della strada.

"Smetterò fin quando lei smetterà di andare lento come una lumaca."

"Ckanzie, sono seria: il mio stipendio non basta per mantenerci, abbiamo ancora un altro anno di superiori da fare, poi tutti al college." mi spiegò con tono tranquillo. Se Monica non ha reso l'idea, allora vi spiego: io e Monica siamo coinquiline e lei è l'unica fra le due che ha un lavoro, e il suo stipendio non basta per mantenerci, come ha già detto. Quindi sto cercando un lavoro partime per avere qualche soldo in più per pagare l'affitto, o almeno per nutrirci in qualche modo.

"Questo l'ho capito, Monica. Ma non puoi continuare a darmi la colpa. È ingiusto e sbagliato." dissi con voce innocente per farla intenerire e darmi ragione. "Non provarci! Non riuscirai ad ritenermi con una semplice vocina minuta. Ora muovi il culo e vai a fare questo fouttutissimo colloquio." esclamò con tono deciso. "E va bene..." accettai l'idea che il mio piano fallì, con fatica, ma dopo un po' ci riuscì.

***

Alla fine mi convinsi che era inutile andare con il taxi, se quest'ultimo non sa fare nemmeno 30 metri.

Dissi all'autista che ero arrivata a destinazione, e anche se sapevo che non ci fosse cascato, scesi dall'auto e andai a passo svelto verso l'ufficio. Appena arrivata mi affrettai a salire le scale verso l'ascensore, schiacciai il pulsante per salire al sesto piano e nel frattempo controllai l'ora accendendo lo schermo del telefono.

Le 9:55.

Cinque minuti di anticipo. Non so nemmeno come io sia riuscita ad arrivare in anticipo. Quindi mi state dicendo che la telefonata piena di prediche di Monica non è servita a niente? Dopo che torno a casa la uccido io.

Per il colloquio di lavoro ho pensato di indossare qualcosa di semplice: un vestitino nero che arriva fino a metà coscia, le Dr. Martens, i lunghi capelli biondi e mossi sciolti e liberi, i miei occhi blu tracciati da un eyeliner, e le lunghe ciglia nere avvolte da un mascara dello stesso colore di esse. Ed in fine, per completare il look, il bracciale d'oro giallo che mi è stato regalato da mio padre il giorno del mio dodicesimo compleanno. Sul bracciale c'era scritto: My little Minnie.

Iniziai a tracciare con le mie piccole dita limate e smaltate il contorno della scritta curata, con un sorriso ebete stampato sulla faccia. Mentre toccai le lettere colorate di oro giallo, il mio sguardo cadde sul mio anello.

Quanti ricordi...

Riaffiorarono molti ricordi, che accidentalmente mi scordai col tempo, siccome sono abituata a mettere da parte quelli brutti.

Non ho l'abitudine di raccontare in giro le mie cose, soprattutto se c'entra qualcosa con il mio passato. Ma dal tronde questi sono i miei pensieri, non è così? Se solo questi non fossero pensieri, allora avrei descritto anche alla mia mente come li avrei pensatai e quale tono avrei utilizzato per pronunciare queste simili parole. Lo so, non c'è alcun filo logico, ma questo è irrilevante.

Tornando a noi, non feci caso a tutto quello successo in passato e tutto quello che riuscivo a ricordare, e mi resi conto che mi ero fermata sul posto a guardare e toccare l'unico ricordo rimasto di mio padre, come se nulla fosse, senza curarmi di alcuno sguardo.

Mi raddrizzai sul posto e continuai a camminare con passo svelto, per arrivare finalmente all'ufficio del mio così detto capo.

Sempre se vieni accettata.

È con queste parole mi ricordai del "prossimamente omicidio" di Monica.
Vittima: Makeckanzie Edwards.

Una povera ragazza di 17 anni che non fu accettata come stagista durante il colloquio di lavoro. Vittima di omicidio, per un motivo del tutto insignificante, ma terribilmente vero.

Quando arrivai circa qualche metro lontana dall'ufficio, mi avvicinai leggermente per afferrare la maniglia e farmi coraggio ad entrare. Ma quando l'afferrai, una voce familiare mi rimbombò nelle orecchie.

Mi girai, e quando misi a fuoco quell'immagine, mi sembrò di essere all'inferno.

"Ehi, Ckanzie."


(capitolo revisionato)

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