Capitolo 8

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La mattina dopo, alle nove in punto, varcai la soglia dell'ufficio della Dottoressa Zea, la mia psichiatra.

Lo studio della dottoressa era un ambiente particolarmente ampio. Si trovava al primo piano di una palazzina della zona centrale dell'istituto, aveva le pareti tinteggiate di un bell'azzurro che, associato al mobilio bianco, faceva pensare al mare. Nella stanza c'era, come di consueto, una scrivania con comode poltrone da entrambi i lati, una grande libreria stracolma di vecchi tomi di psicologia e un lettino bianco con accanto una sediolina del medesimo colore. La cosa che più mi piaceva dello studio della Dottoressa Zea era però una nicchia con una serie di mensole colme di cibo e un divanetto, posti sotto ad una grande finestra che dava sul giardino.

La Dottoressa Zea era la prima psichiatra per cui non nutrivo uno spiccato disprezzo, forse perché era talmente empatica da risultare impossibile da odiare. Quando entravi nel suo studio venivi accolto con un sorriso caloroso, una tazza di the fumante e qualsiasi cosa potesse metterti a tuo agio, nel mio caso un pacchetto di sigarette ancora sigillato e un paio di confezioni di caramelle gommose.

Fu proprio in nome di quella immensa empatia e attenzione verso il prossimo che quando mi vide sulla porta mi chiese, con tono apprensivo, se per caso qualcosa avesse disturbato il mio sonno. Sorrisi davanti alla sua finezza di modi. In realtà sembravo essere appena stata travolta da un Tir.

- Sì Dottoressa, non ho dormito granché bene.-

-Posso chiederti cosa ti ha tenuta sveglia, mia cara?- mi domando la donna prima di alzarsi dal divanetto per andare ad accendere la macchinetta del caffè.

-Sono paranoica. Basta uno scricchiolio, un respiro pesante o un'ombra fuori posto e non riesco più a chiudere occhio.- dissi stancamente.

Mi sarebbe piaciuto dirle la verità cioè che in realtà, a tenermi sveglia, era stata la fottuta auto che per un attimo non mi aveva tirata sotto. Mi sarebbe piaciuto molto ma, pur fidandomi di lei, non mi fidavo gran che del valore del segreto professionale all'interno dell'Istituto.

-Megan, precisamente cosa intendi quando parli di paranoia?- mi chiese la dottoressa mentre mi porgeva una tazza fumante piena di caffè.

Appoggiai la tazza per terra, accanto al divanetto, accesi la prima sigaretta e lasciai uscire il fumo senza emettere suoni.

-Per paranoia intendo una psicosi caratterizzata da delirio cronico basato su convinzioni a tema persecutorio.- dissi con tono distaccato

- Ti è stato diagnosticato? La tua è una definizione molto precisa- chiese la donna guardando sulla mia cartella clinica, con un'ombra di curiosità.

Scossi leggermente la testa

-No, ma l'ho vissuto da vicino
Ne soffriva mia mamma. -

-Credi sia anche il tuo caso?-

Scossi ancora la testa, con più decisione.

-Le avevano diagnosticato un disturbo paranoide della personalità, era messa sicuramente peggio di me. In ogni caso se ne è andata da troppo tempo per fare un confronto. -

Andammo avanti a parlare fino a quando il paziente dopo di me non bussò alla porta, quindi mi congedò con un sorriso e me ne andai più serena.

Era almeno da un paio d'anni che non nominavo mia madre, con i miei fratelli l'argomento era sempre stato un tabú e il resto della famiglia, semplicemente, non amava parlarne.

La dottoressa Zea doveva avere qualche potere magico visto che era riuscita a farmene parlare per quasi un'ora senza che mi mettessi a piangere o a spaccare qualcosa, il che era piuttosto strano considerando che gli ultimi tentativi si erano rivelati a dir poco disastrosi.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Jul 14, 2020 ⏰

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