Cap. III Sono dove tu sei - Parte II

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Josefa Torres aveva quarant'anni, ma se non lo avessi saputo gliene avrei dati di più. Non per il suo aspetto fisico, ma per qualcosa del suo carattere che la faceva sembrare più vecchia, almeno ai miei occhi.

La sistemazione nel suo appartamento non era male, anche se c'erano dei punti che avrei preferito cambiare.

Lei si occupava praticamente di tutto, visto che era la padrona di casa: mi puliva persino la stanza. All'inizio la cosa mi aveva fatto piacere, poi avevo cominciato a trovarla un po' inquietante, ma Josefa non voleva saperne di lasciarmi le redini delle pulizie.

Era stato seccante capire che non si fidava di me, anche se lo avevo accettato. Il pensiero di cercarmi un'altra sistemazione, magari finendo in un rumoroso appartamento abitato da quattro o cinque studenti universitari, bastava a farmi tollerare qualsiasi cosa.

Quando ero arrivata a Zaragoza, la prima casa in cui avevo abitato era stata per l'appunto quella di quattro studentesse che, chissà perché, non mi avevano presa in simpatia. Mi avevano fatto ogni sorta di dispetto, ma la situazione era precipitata quando avevano fatto sparire alcune foto stampate che conservavo gelosamente in un cassetto della scrivania.

Quella volta mi ero talmente arrabbiata che avevo lasciato la mia stanza per catapultarmi in quella di due di loro, dove si stavano intrattenendo tutte con un gruppo di amici in preda alla febbre da karaoke. Avevo sbattuto la porta, comparendo sulla soglia all'improvviso, come nei migliori film dell'orrore, e mi ero sfilata il guanto sinistro guardando ciascuna di loro con un odio feroce e assoluto.

Solo una si era accorta della mia presenza. Le altre erano troppo impegnate a improvvisare su un vecchissimo pezzo di Alejandro Sanz.

Alla fine si erano però ritrovate tutt'e quattro a sanguinare dalla bocca e dal naso.

Non avevo mai usato la Danza del Sangue su degli esseri umani.

Mentre le urla arrivavano fino al cielo, mi ero sentita come in un remake di serie B di "Carrie – Lo sguardo di Satana", di Brian De Palma. Lo avevo visto una volta nella Filmoteca e non ero più riuscita a dimenticare la scena madre del film, quando durante il ballo studentesco tutti i presenti subiscono la vendetta della protagonista, dotata di poteri psichici, e fanno una fine davvero brutta.

Non avrei dovuto guardare certi film, soprattutto perché non avevo bisogno di stimolare l'immaginazione per vivere l'orrore di efferati omicidi: mi bastava pensare ai mostri che avevo sempre combattuto e a quelli che si agitavano nel mio cuore quando ricordavo chi avevo perso a Xaghra.

Eppure li guardavo. Gli horror e i film romantici erano la mia maledizione e la mia fissazione.

I primi facevano accelerare il mio battito cardiaco all'impazzata, i secondi mi facevano piangere fino a disidratarmi.

In entrambi i casi, però, svolgevano bene la loro funzione catartica e dopo averli visti mi sentivo un pochino meglio.

A ogni modo, avevo lasciato l'appartamento di quelle studentesse il giorno dopo il mio assurdo gesto, prelevata quasi di peso da un impiegato del Ministero Internazionale dei Trasporti che aveva avuto cura di insabbiare l'accaduto un po' minacciando un po' corrompendo le quattro ragazze.

Avevo subito una bella strigliata da Jorge e poi ero stata caldamente invitata a cercarmi un'altra sistemazione con le mie sole forze. Nell'attesa che la trovassi mi avevano obbligato ad alloggiare in uno stanzino all'interno del palazzo dell'Aljaferia. Di giorno svolgevo qualche lavoretto di segreteria e poi andavo a dormire su una brandina pieghevole che un paio di volte aveva tentato di chiudersi su se stessa con me sopra nel cuore della notte.

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