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Giosuè

Guardarsi allo specchio e farsi pena era una costante con la quale dovetti imparare a convivere. L'interfaccia di ciò che credevo e di ciò che non sapevo di essere mi mise di fronte a qualcosa di sconosciuto e che non sembrava possibile.

Misi l'orologio nel taschino della giacca. Presi una sigaretta dal pacco e la strinsi tra le labbra sottili. Salutai Maria che carezzò il ventre impercettibilmente rotondeggiante. Le diedi un bacio sulla fronte e lei lasciò scivolare le dita dalla mia guancia.

«ti aspetto per pranzo?» mi domandò alla spalle

«se, ci vediamo chiu tardu»

«a fumare chiu picca», protestò «prima che arrivi il bambino».

Uscì dal portone in ottone a aprì le spalle inspirando rumorosamente. Sempre la stessa vita ad attendermi e la monotonia lasciava poco all'immaginazione. Avrei raggiunto l'azienda di mio suocero, il solito plico di fogli sulla scrivania e le parole singhiozzate tra colleghi. L'intento quel mattino fu quello di perder tempo, non volevo correre ai miei doveri e nemmeno ricostruire la solita giornata. Percorsi strade conosciute, salutai visi familiari e poi mi spinsi fin sotto casa sua.

Che dio mi perdoni pensai quando la vidi lontana dal parabrezza, affacciata alla finestra mentre chiacchierava con la domestica in giardino. Rimasi lì, nascosto, a fissarla quando iniziò a ridere di gusto, si piegò in avanti, portò le mani allo stomaco e lasciai che quella risata facesse sorridere anche me. Che quel suon risvegliasse il torpore della mia mente

Anna, Anna.

Era aria fresca, quel punto inopportuno fuori dal testo, la nota fuori dal coro. La guardai assorta mentre il desiderio imbestialito si prendeva sempre di più le buone volontà che avevo nel non arrecarle dolore, perché sarebbe successo, era inevitabile.

Trovavo estremamente piacevole quei modi di fare che aveva, quella voglia di sognare che non ricordavo, quella risposta sempre pronta.

Mi teneva testa la carusa, e quella sua voglia di esplorare arricchiva anche me che per troppo tempo avevo lasciato che la vita mi usurasse, mi tenesse a bada lontano dalle evoluzioni. Ti porta via qualcosa ma ti lascia il dovere di prendertene un'altra e a me quella voglia era venuta a mancare. Mi mancò durante il matrimonio e persino quando scoprimmo di diventare genitori. Maria mi strinse a sé ed io non feci altro che pensare a quante cose avrei potuto ma che non avevo avuto il coraggio.

Strisciai il palmo della mano sulla bocca e il naso, guardai di sfuggita il finestrino retrovisore e mi accasciai sul sedile in pelle nero. Mi sentì rotto, distrutto in più parti difficili da medicare, da curare, da vedere. Mi mangiai di pensieri intrusivi e martellanti, la voglia di prendere, il dovere di lasciar andare. Anna guardò di fronte a sé. Qualcosa le disse di alzare la testa dal libro e di guardarmi, con quell'espressione apatica e i capelli liberi di attraversare il vento e di spingerlo fino me. Aveva due occhi incontaminati, puliti ma zeppi di cose non dette, paure rifugiate, mischiati a quella meravigliosa imprudenza della sua età. Lanciai l'ennesimo mozzicone fuori dal vetro e scesi con tutta la mia incertezza. Sarei diventato padre e preferivo trascorrere il tempo con Anna, la ragazzina dalle guance rosse e le trecce arruffate e se mai ci avessero scoperto mi avrebbero fatto saltare la testa. Ne valeva la pena allora? Davvero Anna valeva più della mia stessa vita? Più di mia moglie? Più di mio figlio e del mio onore?

Non le dissi nulla e non appena la vidi sparire dentro casa mi rifugiai velocemente nel fienili dirimpetto. Attesi agitato con le mani sudate e il viso tirato e quelle voci non cessarono le urla di rimprovero, non smisero di ribadirmi l'enorme errore che stessi commettendo ma non bastarono, non bastarono quando la vidi correre verso di me. Quando entrò le nascosi gli occhi con i palmi delle mani, gli zigomi si alzarono e tastò con le dita, sentì il fresco del suo fiato, prima di avvicinarmi all'orecchio annaspai l'odore tra le ciocche.

La tua ombraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora