Capitolo 1

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Prima Parte: "Gioie e dolori di un'ingenua".

Capitolo 1.

Per un discutibile periodo della mia vita ho sofferto d'insonnia. Quel genere di insonnia che ti incatena gli occhi al lento incedere della luna nello spicchio di cielo che puoi osservare da una finestra. Quel genere di insonnia che ti fa leggere per ore volumi noiosissimi nella speranza che ti conducano dolcemente nelle braccia di Morfeo. Quel genere di insonnia che ti costringe a pensare.

Peccato che a quei tempi non avevo una finestra da cui sbirciare il mondo, e i libri erano troppo preziosi perché una come me potesse metterci le mani sopra.

Non mi restava che pensare, e pensare.

E spesso, in quelle notti, cercavo il momento che mi aveva condotto a tanta distruzione. Tutti, pensavo, dovevano avere quel momento, quello in cui il rettilineo della vita si incrinava e in cui, senza accorgertene, ti ritrovavi altrove, in un destino che non ti apparteneva. Io lo avevo bramato quel momento: volevo, dovevo trovare l'istante in cui la mia vita aveva smesso di essere solo mia e si era fusa con i destini di tanti altri.

Una notte, anni dopo tutti gli eventi che resero nota la mia storia, lo individuai il mio momento.

Tutto iniziò con un temporale.

Osservavo stralci di nuvole affastellarsi sopra di noi, ingrigite e cariche di pioggia.

La pioggia era quasi invisibile: riuscivo a scorgerla solo sotto i coni di luce dei lampioni mentre ogni goccia compariva per un istante per poi svanire per sempre, ingoiata dall'asfalto decine di metri più in basso.

La sfumatura del cielo cozzava con le tinte entusiastiche dei palazzi, che gareggiavano tra loro per essere proclamate le più chiassose.

La pioggia cadeva fitta sui terrazzi a gradoni dei palazzi, con un sonoro ticchettio che riusciva a calmarmi da che avevo memoria, e si arrestava ad altezze diverse, quando incontrava i profili dei palazzi, creando un'immensa scala d'acqua che scrosciava inesorabile dalle vette del centro città per andarsi a schiantare alle monolitiche mura che ci circondavano, che ci tenevano al sicuro.

«Fauve, sei ancora qui?» sentii dire alla mamma.

Non le risposi, rimasi ad osservare la natura risvegliarsi. A volte mi chiedevo come facesse il pianeta a continuare imperterrito a compiere le proprie magie, nonostante quello che l'umanità aveva commesso negli ultimi secoli: quella pioggia mi dava speranza, mi sussurrava all'orecchio che non tutto era perduto, che un giorno avremmo potuto valicare le mura e non rimanerne terrorizzati.

«Sonje, accompagna tua sorella, con questo tempo potrebbe perdersi» disse lei con tono più morbido, come se io non fossi lì. Accadeva spesso.

Era il mio ultimo giorno in quella unità abitativa. Il mio ultimo giorno con quella che dopo diciassette anni ancora faticavo a chiamare famiglia, il mio ultimo giorno in quella realtà.

Tutto stava per cambiare e io non sapevo nemmeno se averne paura.

Mia sorella apparve come un'ombra alle mie spalle. Non emetteva più un rumore da quando era tornata dal Programma: fendeva l'aria più che attraversarla, e lo faceva sembrare una cosa normale.

Il suo riflesso sul vetro mi sorrise. Non ricambiai.

«Non puoi arrivare in ritardo alla visita» disse lei in un sussurro. «Faresti una brutta impressione e partiresti svantaggiata ancora prima di incominciare».

Questo lo sapevo anche io: nemmeno la propria morte giustificava un ritardo.

Con un sospiro e un'ultima, languida, occhiata mi allontanai dalla finestra, agguantai un soprabito color aragosta e lo indossai prima di uscire. Sonje afferrò il suo ombrello giallo limone e mi seguì.

Crisalide - VINCITORE WATTYS 2020Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora