Capitolo 4.
Quando tornai cosciente il mondo non era cambiato.
Il battito lento del mio cuore mi cullava. Il suono dei polmoni che aspiravano ossigeno indisturbati mi tranquillizzò.
Cercai di fare mente locale: partii dai piedi e, con gli occhi ancora serrati, chiamai all'appello ogni parte del corpo. Tutto rispondeva.
Lasciai che gli altri sensi esplorassero per primi il mondo.
Un telo mi fasciava il corpo fin sotto le spalle: ne avvertivo la consistenza spugnosa e morbida; le braccia invece erano libere e nude. Con i palmi delle mani esaminai il giaciglio su cui ero sdraiata, troppo scomodo per poter essere considerato un vero letto: era in legno, massiccio, lucidato più volte ma con qualche strato capriccioso. Alla mia destra una parete rugosa, alla sinistra il vuoto. Forse era una panca più che un giaciglio.
Il legno lo potevo sentire nell'aria: pino probabilmente, anzi no, sicuramente pino, era lo stesso inconfondibile odore degli indumenti di mio padre che lavorava nella segheria del settore 67. Pino, e dall'intensità del profumo, tagliato di fresco. Inspirai a fondo, riempii i polmoni fino a quando non ne abbi abbastanza e poi gettai tutto fuori: non c'era solo pino, ma anche sudore – sperai solo il mio – e terra bagnata. Che stesse piovendo?
Mi concentrai sui rumori, alla ricerca del dolce gocciolio dell'acqua ma non sentii nulla, nulla oltre il mio respiro sempre più pesante.
Spalancai gli occhi e lasciai che la luce mi disturbasse: era una stanzetta angusta, con una candela nell'angolo. Avvolsi il telo attorno al mio corpo e mi alzai. Era di un grigio sporco, sfilacciato ai bordi che solleticavano le caviglie nude.
Non potevo fare più di due passi prima di raggiungere la parete opposta: etichettarla come stanzetta era un gran complimento, poteva passare per la cuccia di un grosso animale, o al massimo per una bara capiente.
Una bara. Stavo per morire? Mi avevano seppellita viva? Cos'era, una specie di scherzo macabro?
Ora faticavo a respirare, il sudore iniziava a colare lungo il collo per poi perdersi nel telo, e i polmoni inciampavano ogni volta che inspiravo.
Cercai di controllare la respirazione, di non consumare tutto il prezioso ossigeno. Il risultato fu esattamente l'opposto: più cercavo di trattenermi, più i miei polmoni galoppavano imbizzarriti verso l'anidride carbonica. Perché nessuna parte del mio corpo mi ubbidiva adesso che ero vigile? Perché perdevo il controllo quando ne avevo più bisogno?
Sarei morta in quattro pareti non tinteggiate, su una panca scomoda e intagliata di fresco. Non speravo certo in una morte gloriosa, ma tra tutte le morti ignobili che ero riuscita ad immaginare in passato, quella era l'acme della vergogna.
Morta ancora prima di iniziare il Programma.
Il Programma.
Mi immobilizzai.
Il Programma. Io ero nel Programma. Ero necessariamente nel Programma: decisamente quell'angusta stanzetta non era la stanza d'ospedale. Portai istintivamente le mani ai capelli: sporchi, lunghi e di certo non profumavano di rose, ma erano lì. Ero davvero entrata nel Programma allora.
Ero nel Programma, nessuno moriva nel Programma, no? Non avevo mai sentito di qualcuno morto nel Programma, chi ero io per contraddire la serie positiva?
Prima dell'illuminazione mi ero aggrappata alle pareti, nel disperato tentativo di trovare qualche varco, senza successo ovviamente. Ma non c'era alcun bisogno di trovare varchi, non subito almeno. Non morire implicava l'esistenza di un modo per sopravvivere; dubitavo volessero farmi passare tre anni chiusa in un cubicolo. Troppo noioso.
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