Capitolo 8

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Capitolo 8.

Spalancai gli occhi. Niente stormir di ciglia, niente lento risveglio di coscienza. Un attimo prima ero persa tra le braccia di Morfeo e quello dopo – boom – ero completamente vigile, come se qualcosa dentro di me sapesse che il mondo si era incrinato.

Forse era l'assenza di un altro respiro, o il sole alto che mi riscaldava le gambe, o forse avevo finalmente scovato il mio superpotere. Tutti ne meritavano uno nel Programma: il mio poteva essere benissimo il fiuto per le catastrofi. Non era raffinatissimo – non aveva dato segni di vita in situazioni precedenti che io avevo reputato ugualmente terribili – ma non era niente male quando si trattava di imponenti cataclismi.

Sul momento però non ci badai: notai solo il silenzio. A svegliarmi fu il silenzio.

Mi misi a sedere e cercai Lobelia. Lei non c'era, il suo letto era per la prima volta ordinato, mancavano i suoi stivali e il pugnale che lasciava sempre sotto il cuscino.

Scesi e andai alla ricerca del locandiere. La sala comune era deserta, i resti della nostra cena aspettavano ancora sul nostro tavolino preferito, quello accanto alla finestra che dava sul retro del locale. Mi avventurai dietro il grande bancone in legno di noce, grezzo e senza alcuna finitura, ingentilito solo dall'esercito di bicchieri opachi che facevano bella mostra, pendendo dal soffitto basso come pipistrelli.

«Chi ti ha dato il permesso di venire qui dietro?» disse una voce di cui faticavo a trovare un proprietario. Poi lui si erse dall'angolo in cui era accucciato con tutto il suo metro e sessanta di altezza. Preferivo pensare che fosse lì per cercare qualcosa e non per nascondersi. E da chi, poi?

«Scusi se interrompo il suo...» mi interruppi alla ricerca del termine adatto per descrivere la scena, ma non lo trovai. «Scusi se la interrompo» decisi alla fine. «Volevo chiederle se ha visto uscire la mia compagna di viaggio».

Sperai di non essere costretta a fare una descrizione dettagliata dei segni particolari come facevano negli spot sulla vita ante Anni Bui. Lobelia era una profusione di segni particolari.

E in fondo, da quel che mi era parso, non alloggiava nessun altro lì: poteva dimenticarsi delle sue uniche clienti?

«Quella bionda?» chiese, con una voce grumosa come il fango, con gli occhi alla stessa altezza dei miei, ma sfuggenti, presi da tutto tranne che da me.

«Sì, quella bionda» confermai, esasperata. Quella bionda, come se la prima cosa che si notava di Lobelia fossero i capelli, e non la camminata spocchiosa o il profumo di rosa.

Forse per darsi un tono affaccendato, il locandiere agguantò uno straccio dimenticato sul bancone e iniziò ad asciugare bicchieri mai lavati.

«Se n'è andata» disse. «Ha saldato il conto e se n'è andata».

In un primo momento non capii cosa intendesse, nonostante la limpidezza delle sue parole.

Non poteva essersene andata, io ero ancora lì, la nostra roba era ancora lì. Non poteva avermi abbandonata, non così presto. Era solo il giorno nove.

Arretrai di un passo, come a ripararmi dal contraccolpo di quanto aveva detto. Nascosi le mani dietro la schiena e mi appoggiai alla parete ruvida

Presi a mordicchiarmi il labbro inferiore, fino a quando non sentii il sapore del sangue sulla lingua. Lo facevo sempre a casa, per calmarmi e per riportarmi alla realtà nei momenti di noia, ma nel Programma non credevo che avrei mai visto del sangue eppure eccolo lì a inumidirmi le labbra quel tanto che serviva per parlare.

«Non capisco» dissi. Deglutii una volta, poi due. Il sapore del sangue che scendeva giù lungo la gola. «Cosa intende esattamente lei per andarsene?»

Crisalide - VINCITORE WATTYS 2020Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora