Capitolo 3.
Per anni avevo buttato giù decine di pellicole Ante Anni Bui, ingurgitate con foga, assetata di conoscere quello che fosse il passato. Mi rintanavo nel cinematografo sperando che, un giorno, nascosta nella moltitudine di voci, potessi trovare la mia. Non era accaduto: non avevo trovato quella né la risposta a molte delle mie domande, solo anacronismi.
Una delle sciocchezze che più mi aveva colpito era l'importanza che si attribuiva ai compleanni.
Da noi i compleanni non avevano poi questa rilevanza: per alcuni un figlio era una benedizione, e quindi si celebrava il ricordo della sua nascita con gioia. Ma erano pochi, rari. Per molti, invece, la prole non era altro che l'attuazione del decreto di ripopolamento mondiale. Non più di un dovere che si sommava a tutti gli altri.
Che senso aveva, allora, festeggiare?
Il diciassettesimo compleanno, poi, veniva sempre dimenticato. Che fosse perché ormai eri alla soglia dell'età adulta, e quindi contare gli anni era puerile, o che fosse perché coincideva con un evento ben più importante, non avrei saputo dirlo: alla fine però, quale che fosse la causa, non avevo mai sentito di qualcuno a cui è stato detto "Buon compleanno" quando aveva compiuto diciassette anni. Una profusione di "Auguri" e di "Rendici fieri", o lo squisito "Conquistati il posto che meriti" - come se qualcuno andasse lì convinto di meritare il posto di addetto all'igiene dell'impianto fognario nel settore 253. Potevi assistere a lacrime, di gioia o di dolore, e ad un numero di abbracci che farebbe scattare l'arresto immediato se il crimine non fosse consumato nella Torre Centrale. La Torre Centrale, sede del Governo cittadino, era ironicamente il luogo dove più spesso venivano violate le regole sociali.
Ma quando compivi diciassette anni, pardon, quando entravi nel Programma tutto era concesso, forse addirittura un bacio.
Mentre percorrevo i corridoi della Torre Centrale, alla ricerca della mia famiglia imboscata chissà dove, cercavo di mettere su la faccia adatta all'occasione. Eccitazione? Orgoglio magari, o paura?
Cosa dovevo provare per il Programma?
Quella mattina i miei genitori sembravano essersi dimenticati che, tra le altre cose, compivo gli anni. Si erano semplicemente complimentati con me. Per cosa poi? Come se la mia fosse una scelta. Si complimentavano perché non mi stavo disidratando dalle troppe lacrime? O perché non avevo implorato per rimanere? Leggende narravano di eventi simili, e ogni genitore sperava sempre di non dover fornire imbarazzanti spiegazioni su comportamenti così irrispettosi.
Poter partecipare al Programma era un onore. Se le popolazioni Ante Anni Bui avessero avuto a disposizione un mezzo simile, si sarebbe sventata la macchia più tetra nella storia dell'umanità.
Affondai le mani nelle tasche della felpa e tirai su con il naso.
Per quanto le mani tremassero e lo stomaco fosse attorcigliato mi sarei comportata da cittadina perfetta. Non avrei badato ai palmi sudati e al cuore che perdeva un battito ogni volta che una possibile tragedia si affacciava nella mia mente.
Non avevo idea di cosa mi aspettava. Buio totale.
Nel corso degli anni si era andata formandosi questa idea nella mia mente che vedeva il Programma come un'arena in cui tutti i suoi partecipanti avessero dovuto lottare e superare prove per dimostrare di essere i più meritevoli, circondati da un'atmosfera brutale che li avrebbe spinti oltre i propri limiti fino a renderli i migliori. Io sarei stata la pulce schiacciata dallo stivale di qualcuno più motivato di me.
In queste mie fantasie Sonje vinceva su tutti e strappava ai propri avversari il ruolo più ambito.
Riflettevo spesso su quale fosse il ruolo che aveva effettivamente conquistato mia sorella durante il suo viaggio nel Programma: vigeva un riserbo assoluto durante l'anno di corso da postProgramma e non c'era nulla che mi desse indicazioni se non alcune strane cicatrici e il piccolo sole tatuato sulla sua nuca.
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