04. Nonna Bigfoot

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𝐂𝐋𝐀𝐈𝐑𝐄

Mi sedetti comoda sul sedile dell'auto. Avevo appena parcheggiato all'università e avevo iniziato a mangiare il cornetto, quando il telefono trillò ancora una volta.

Perché non mi era permesso di fare una cazzo di colazione in santa pace? Presi il telefono e, dopo aver letto "Bigfoot", sbuffai scocciata e spensi lo schermo, ignorando la chiamata.

Portai alle labbra la calda tazza colma di cappuccino e ne sorseggiai il contenuto. Non appena sentii la quantità di zucchero presente, arricciai il naso, mi costrinsi a deglutirlo e tossii.

Guardai la tazza e maledii il nano da giardino: quello stronzo troglodita. Mia nonna avrebbe dovuto informarlo di tutto prima di assumerlo. Lo zucchero, cazzo!

«Signore, che schifo», borbottai, iniziando ad abbassare il finestrino. Chi era il matto che beveva ancora il cappuccino con lo zucchero? Andava bene la cioccolata, o qualsiasi altro dolce, ma non dentro la caffeina.

Tolsi il tappo dalla confezione e la svuotai fuori dal finestrino, aperto il minimo indispensabile.

«Ehi!» esclamò qualcuno fuori dalla macchina.

Oh cazzo!

Abbassai totalmente il vetro e guardai fuori di esso. Un ragazzo alto circa un metro e ottanta, petto largo e muscoli scolpiti mi si presentò davanti agli occhi. I riccioli bruni gli coprivano la fronte, coprendo anche gli occhi, mentre il capo era basso e rivolto verso le scarpe.

Alzai un sopracciglio, continuando a fissarlo da dietro gli occhiali da sole.

«Vuoi vedere dove cazzo butti le tue cose?» domandò irritato, senza mai alzare lo sguardo.

Presi io l'iniziativa di seguire i suoi movimenti e, non appena notai le sue scarpe, mi morsi il labbro inferiore per trattenere le risate. Le sneakers bianche della Hamilton erano completamente imbrattate di caffè.

Se non fosse stato per la loro marca, probabilmente, visto il mio amore per le scarpe, sarei scoppiata a piangere e mi sarei perfino offerta di ricomprargliele, ma non potevo farlo, ero pur sempre una Campbell.

«Se ci passi un po' d'acqua se ne va tutto» dissi.

Feci per alzare il finestrino, quando il ragazzo lo bloccò con una mano. Mi fermai all'istante, impaurita che potesse farsi male alle dita. Una volta mi era capitato di chiudermi a posta le dita tra il finestrino e la portiera, e sapevo quanto potesse fare male.

«Senti, sono stanca e non ho voglia di discutere con te, leva le mani e risolviamo tutto» affermai, abbassando gli occhiali.

Il ragazzo mi guardò a bocca aperta, come se si fosse appena accorto di chi aveva davanti. Odiavo quando le persone rimanevano a fissarmi, per cui gli battei una mano sulla spalla.

«La vuoi piantare di fissarmi come se avessi appena visto dio e magari andartene via e lasciarmi finire la mia colazione?» gli domandai e lui sorrise.

«Perché dovrei?»

Aggrottai la fronte.

Come perché? Perché te lo sto chiedendo con gentilezza, imbecille.

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