Cactus

572 38 10
                                    

Sei arrivata con l'irruenza di un tuono.
Sei entrata sbattendo la porta.
Hai puntato le braccia sulla mia scrivania, con le mani strette a pugno e le nocche che si facevano bianche come sculture di sale.
Hai travolto il silenzio, importunando la mia solitudine, come ormai fai da settimane a questa parte.
A nulla sono valse le mie minacce.
A nulla sono valse le mie occhiate cariche di fiamme.
A nulla è valso il mio carattere detestabile che mi ha sempre garantito uno schermo infallibile da resto del mondo.
Hanno sempre funzionato con tutti.
Persino di fronte alla follia rimpianta di Albus. Persino di fronte alla curiosità materna di Minerva. Addirittura davanti al sadismo del Signore Oscuro.
Hanno sempre funzionato con tutti.
Ma non con te, che te freghi di tutto.
Che te ne freghi di me, e della mia maschera costruita con mattoni impastati di dolore e di ricordi indelebili.
E adesso sei qui, ti aggiri sbuffando per un ufficio che ha perso la sua aura sinistra dal giorno stesso in cui hai piazzato un mazzo di fiori nel bel mezzo della mia libreria.
Lo hai messo lì con un sorriso beffardo, guardandomi negli occhi ed attendendo con trepidazione la mia collera, così da avere una nuova scusa per sfidare il mio mondo in bianco e nero e di riempirlo del tuo ottimismo inguaribile.
Lo hai messo lì, in un vaso di ceramica verde smeraldo, sussurrando tra i denti che almeno non avrei avuto da ridire sul colore.
Sei arrabbiata. Sei infastidita.
Molto probabilmente è stata colpa mia, anche se, onestamente, non so identificare la causa specifica di questo tuo malessere pirotecnico, che si manifesta in tutte le sue sfaccettature più bizzarre in questo sotterraneo umido.
Quelle stesse che ho imparato a riconoscere e a prendere in giro con il sarcasmo che mi è congeniale.
Quelle stesse che amo senza sapertelo dire.
«Vuoi spiegarmi perché stai riarredando il mio ufficio a suon di calci alle sedie, o speri che in qualche modo io possa arrivarci da solo?»
Ti fermi, mi fulmini con lo sguardo.
In quel modo saturo di dolcezza che sicuramente non vorrebbe essere colta.
Mi piaci Hermione Granger.
Mi piaci quando mi metti all'angolo, costringendomi ad atteggiamenti carichi di tenerezza di cui mai avrei pensato di essere padrone.
Mi piaci quando mi baci senza un preavviso.
Mi piaci quando mi guardi in mezzo alla folla e sorridi cercando di non farti vedere.
Mi piaci quando sei distratta e ti infili in bocca una ciocca di capelli.
Mi piaci quando sei agitata e ti torturi le dita.
E mi piaci anche quando sei arrabbiata e prendi a calci le mie sedie.
«Vuoi davvero dirmi che non lo sai? E pensare che tutti ti ritengono uno degli uomini più intelligenti del pianeta, Severus!»
Solevo un sopracciglio, ti guardo tentando ancora una volta un inutile gesto per provare a garantirmi quel minimo di aura di terrore che mi ha sempre circondato.
Non ci riesco.
Non me ne stupisco.
Fai un passo nella mia direzione, incroci le braccia al petto.
Fai per parlare, poi ci ripensi.
«Vuoi rendermi partecipe della discussione, Hermione, o preferisci continuare con il tuo monologo?» lo dico con stizza, mentre dentro mi beo di questo battibecco quasi continuo.
Di questo tuo perpetuo tenermi in allerta.
Di questo tuo modo di pretendere da me quello che tutti hanno sempre ritenuto impossibile.
Sollevi gli occhi al cielo.
Ti guardi intorno con fare sgomento.
Poi intercetti i fiori ancora freschi, ancora nel vaso che hai scelto per me, ancora nel posto che hai scelto per loro.
Intuisci subito che devo avere cambiato l'acqua, seguendo le tue istruzioni.
E forse non lo vorresti, ma un sorriso ti ha appena increspato le labbra.
«Allora...?» te lo chiedo ancora.
Tu mi guardi, ti riappiccichi nelle iridi la tua migliore espressione di sfida.
«Allora? Allora, Severus, avrei dovuto regalarti un cactus, pieno zeppo di spine. Quella sarebbe la pianta che più ti si addice!» lo dici sbuffando, poi ti sistemi con foga la camicetta, cercando di farla scendere sulla gonna più di quanto l'effettiva lunghezza della stoffa possa concederle.
«Me ne vado... è meglio!» sentenzi con rabbia prima di girarti, raggiungere la porta, aprirla di scatto, e sparire a far sbollire il tuo nervoso lontano dal mio sguardo attonito.
Probabilmente non saprò mai quale dei miei infiniti difetti possa averti mandato in collera questa volta.
Probabilmente non saprò mai perché dovrò risistemare tutte le sedie della mia classe prima della prossima lezione.
Probabilmente non saprò mai cosa dovrei cercare di non replicare in futuro.
Probabilmente non capirò mai niente.
E non mi importa.
Mi restano due sole certezze.
La prima è che entro qualche giorno dovrò prendermi cura anche di uno stramaledetto cactus.
La seconda è che ormai per me, il mago nero dal passato scomodo, dai fantasmi eterni e dall'anima graffiata, sarebbe davvero impossibile continuare a vivere senza di te.

Un attimo prima di arrendersiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora