Un mese dopo.
"Mamma, voglio sedermi, sono stanco di camminare!"
"Va bene, tesoro, ma... non lì, aspetta, andiamo in un altro posto."
"Secondo me si droga."
"Forse è solo malato e non ha un posto dove stare..."
"È un problema suo. Stiamogli lontani, non si sa mai."
"Guarda quello lì. Mi dispiace per lui."
"Oh, poverino..."
Aveva venduto tutto ciò che possedeva. Le cose, tutt'a un tratto, gli erano sembrate soltanto uno scomodo fardello che doveva trascinarsi sulle spalle, e meno roba aveva addosso, meglio era. Non gli servivano più, comunque. Tutto ciò che gli rimaneva erano i vestiti che indossava, la giacca logora e sporca che non lo riparava più dal vento e dalla pioggia, un cellulare scarico e senza credito, una foto conservata con cura nella tasca dei pantaloni.
Aveva venduto anche la vecchia chitarra di suo padre. I quattro soldi che ne aveva ricavato bastarono per tenerlo in piedi solo due settimane e adesso - fermo immobile nell'ostinata convinzione che mai, per nessuna ragione al mondo, si sarebbe messo in ginocchio a chiedere l'elemosina - non gli restava neppure un centesimo.
Il modo in cui le persone lo guardavano - dall'alto al basso, giudicandolo, pensando che bastasse solo uno sguardo per capire chi fosse e quale fosse la sua storia - gli dava la nausea. Non aveva alcuna importanza dove andasse, che fosse in un parco o sotto un ponte, quegli sguardi lo seguivano fino in fondo ad ogni buco in cui cercava rifugio, lo stanavano e gli graffiavano la pelle fino alle ossa, come il freddo, come la pioggia quando batteva e se la sentiva entrare dentro. Lui aveva male allo stomaco, aveva male alla gola, aveva male alla testa, le gambe deboli lo avevano costretto a sedersi su una panchina qualsiasi nella periferia del centro città e tutti quegli occhi indiscreti puntati addosso, tutta quella compassione che non aveva mai chiesto - tutto gli faceva ribollire il sangue nelle tempie.
Avrebbe voluto urlare al mondo: state tutti zitti!, ma in realtà era già troppo oneroso tenere gli occhi aperti e non cedere al sonno (aveva paura: se avesse chiuso gli occhi, sarebbe riuscito ad aprirli ancora?), perciò stringeva i denti e ignorava quel mondo che non si sarebbe curato di un gatto randagio come lui.
"Akutagawa?"
Non sentiva chiamare il suo nome da un po', tanto che non reagì subito. Poteva essere di chiunque quella voce, poteva appartenere a chiunque quel nome. Quando si guardava le dita delle mani, rigide e rovinate, a volte non le riconosceva come proprie.
"Akutagawa!"
A quel punto, sollevò il capo e incontrò un paio di occhi diversi da quelli della folla che gli passava accanto senza fermarsi. Quel paio di occhi erano fissi su di lui, mentre la gente continuava a fluire tutt'intorno.
"Sei davvero tu. Pensavo che non ti avrei più incontrato da nessuna parte, e invece... quant'è piccolo il mondo."
Akutagawa si strinse nelle spalle. Era rimasto fedele ai suoi pensieri, quella notte ormai distante, e non era più tornato a sedersi su quel marciapiedi. Aveva preferito sparire, piuttosto che farsi vedere in quello stato da Dazai, Chuuya, Kunikida - dalle persone che tacitamente avevano accettato la sua presenza, ma prima - ora avrebbe preferito morire, piuttosto che farsi vedere così debole da Atsushi.
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i'll call out a name: your name 一 shin soukoku
Короткий рассказNakajima Atsushi lo guardava da lontano, un po' come fanno i gatti con gli estranei. Anche lui guardava Nakajima Atsushi da lontano, solo che la parte del gatto selvatico che non si fida degli estranei gli riusciva decisamente meglio. A volte, però...