Un mese dopo. (Parte 2)

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"Ah, merda- non riesco più a muovere un muscolo..."

Alla fine, Atsushi lo aveva tirato su di peso e avevano iniziato a correre lontano, insieme, perché non ce la facevano più a lottare. Quei ragazzi erano più grandi di loro, in numero maggiore, meglio piazzati e sicuramente più in forze - almeno, se paragonati ad Akutagawa, che adesso non solo non riusciva più a muovere un muscolo, ma i muscoli proprio non se li sentiva. Non riusciva a percepire neanche il resto del suo corpo, come se fosse stato separato con la forza dalla sua coscienza.

Il respiro pesante, gli arti abbandonati lungo il busto, Akutagawa rimaneva in silenzio a contemplare il vicolo in cui si erano nascosti, stremati dalla fuga, esausti dalla battaglia, e avevano deposto le armi, cedendo alla stanchezza. Erano entrambi seduti per terra, sull'asfalto. Atsushi lo teneva ancora vicino a se, con un braccio sulla sua spalla; era molle e debole, la sua presa, ma pur sempre lì, salda.

"Vieni con me, se non curi le tue ferite si infetteranno. Questa volta non accetto un no come risposta."

Akutagawa sbirciò nella sua direzione. Atsushi aveva un sopracciglio rotto e un rivolo di sangue lungo il mento, tutti i vestiti sgualciti e rovinati, eppure quei suoi occhi erano ancora limpidi, mentre ricambiavano il suo sguardo e gli dedicavano un sorriso un po' sbilenco.

Non sapendo cos'altro rispondergli, si limitò ad annuire, senza neppure sforzarsi di rendere evidente quel gesto. Era troppo stanco per opporre qualsiasi tipo di resistenza.

Lungo la strada, con Atsushi che si ostinava a voler essere il supporto delle sue membra intorpidite e sofferenti, Akutagawa si chiese come fosse possibile che, mentre tutti lo guardavano dall'alto al basso, lo giudicavano, lo insultavano per le pessime condizioni in cui si trovava - mentre il mondo gli puntava il dito contro e lo spingeva a rintanarsi nel suo buco, come una bestia in gabbia che può solo sfoderare gli artigli, senza riuscire a mordere nessuno - Atsushi, invece, gli rivolgesse quel sorriso a metà, timido e incerto, ma anche determinato e sicuro di se, di quello che stava facendo, e come fosse possibile che i suoi occhi non vedessero naufragi, che restassero sempre limpidi e cristallini, anche quando riflettevano il mare d'acqua torbida nei suoi.

Dopo un po', camminando piano, in silenzio, arrancarono davanti al portone socchiuso di un palazzo grigio. Atsushi spinse la maniglia con il braccio libero e, sostenendosi a vicenda, salirono le scale che conducevano verso gli appartamenti all'interno.

"Casa mia non è un granché," disse poi, di punto in bianco, "in realtà non è neanche mia, sono in affitto. È un monolocale," parlava senza guardarlo, come se si vergognasse, mentre tirava fuori un mazzo di chiavi, "ma dovrei avere tutto quello che ci serve."

Non era un granché, aveva ragione: con un'occhiata veloce, persino al buio, Akutagawa aveva già visto tutto quel che c'era da vedere. Il bagno sulla destra, la cucina sulla sinistra, un mobile pieno di cassetti e scomparti subito accanto, un tavolo al centro e un letto singolo addossato alla parete opposta. Tutto qui.

L'ambiente era essenziale, privo di decorazioni di alcun tipo, spoglio e quasi anonimo - ma l'aria che si respirava era tiepida e sapeva di vissuto.

Atsushi accese la luce, si tolse il giubbotto e lo appese all'ingresso, poi sparì quasi subito in bagno, chiudendosi la porta alle spalle come se temesse che lo sguardo inquisitorio di Akutagawa potesse seguirlo fino a lì. Akutagawa, dal canto suo, fu invitato ad accomodarsi e a "fare come se fosse a casa sua", nell'attesa che l'altro si fosse fatto la doccia. Perciò rimase in piedi, lì dove Atsushi lo aveva lasciato, stringendosi nel cappotto nero che lo proteggeva dalle ostilità del tempo e del mondo.

i'll call out a name: your name 一 shin soukokuDove le storie prendono vita. Scoprilo ora