prologue

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  • Dedicata a sara farias
                                    

Suona la campanella: è ora di pranzo, finalmente. Non ci penso due volte ed esco dalla classe per attraversare l’intero cortile praticamente di corsa.

È solo il primo giorno e ho già bisogno di una pausa, una lunghissima pausa.

Non posso fare a meno di sospirare di sollievo prima di accasciarmi sulla panchina, la più lontana dall’edificio scolastico, scrostata dal tempo e sbilenca. L’avevo individuata quella mattina per caso e avevo deciso che sarebbe diventato il mio “nascondiglio”, un'oasi di pace in cui rifugiarsi.

“Tutto ok?” proprio in quel momento arriva Ellen, è sempre così impeccabilmente bella che trattengo a stento un moto di gelosia

“Si” rispondo chiudendo gli occhi per assaporare la tranquillità del momento. Sento le assi scricchiolare quando si accomoda a mio fianco

“Allora?” mi chiede armeggiando con la scatola del pranzo

“Allora cosa?” ridacchio

“Ma sei scema? È il primo giorno in una nuova scuola e tu non hai niente da dirmi?” sbotta allargando le braccia

“Ma vivevo a soli 50 kilometri da qui, non vengo da un altro pianeta”

Ellen fa un mugugno di assenso e mi decido ad aggiungere qualcosa per non sembrare  eccessivamente scontrosa

“Però Sydney mi piace, è più bella di Gosford, e alcune compagne di classe mi sembrano simpatiche” faccio una breve pausa per cercare la mela all’interno del mio zaino

“Poi essere amiche d’infanzia con la ragazza più popolare della scuola mi aiuterà” sbuffa pesantemente prima di lisciarsi la gonna da cheerleader. Non le piace essere etichettata con quell’aggettivo

“Allora da domani pranziamo nella zona ristoro come tutte le persone normali e ti presento ai miei amici” mi sorride gentilmente.

Ha una bellezza particolare che mi piace guardare, con quegli occhi marroni in forte contrasto con la chioma bionda e le labbra a cuore disegnate sulla sua pelle abbronzata.

“Va bene” accetto di controvoglia. Immagino già le cheerleader parlare superficialmente del mio aspetto alle mie spalle, sento le loro voci strudule deridermi. Ma per accontentarla posso fare questo ed altro.

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Mi accomodo nell'unico posto rimasto libero nell'aula di matematica, in prima fila ovviamente, vicino ad una certa Elizabeth, cerco di risultare cordiale. Mi sembra simpatica il che mi permette di non fingere esageratamente

“Oddio” mormora, la guardo accigliata senza riuscire a capire il motivo di questa sua esclamazione

“È successo qualcosa?”

“Non ho portato gli esercizi” le sue guance paffute sbiancano mentre fruga frettolosamente nello zaino.

Senza pensarci due volte decido di aiutarla, a volte essere gentili ripaga.

“Prendi i miei, io almeno ho una scusa” le allungo i fogli che avevo riempito di equazioni ieri pomeriggio. Questo gesto mi farà guadagnare punti, almeno credo.

“C-cosa?” balbetta sconvolta scuotendo la testa. Le faccio cenno di decidere in fretta

“Grazie” sussurra abbassando lo sguardo imbarazzata, non so se dalla mia disponibilità o dalla sua sbadataggine

È talmente felice che per i resto della giornata le sue labbra sottili rimangono tirate in un sorriso di sollievo

Come previsto il professore non ha nulla da ridire sul fatto che la studentessa nuova, cioè io, abbia dimenticato i compiti, e l'episodio viene archiviato con un "me li porterai la prossima volta"

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La campanella suona distogliendo la mia attenzione dallo scarabocchio che stavo disegnando sul libro di storia, raccolgo con calma i libri e li getto confusamente nello zaino mentre Elizabeth mi saluta timidamente. La guardo allontanarsi con la sua camminata goffa, la camicetta leggermente tirata sulla schiena e provo una sorta di tenerezza nei suoi confronti.

La classe è ormai vuota e decido di affrettarmi, lungo i corridoi incontro pochi ritardatari e un professore che corre affannatamente nella direzione opposta alla mia, come se fosse questione di vita o di morte, mi chiedo per un secondo dove fosse diretto ma dimentico presto l'accaduto mentre esco dalla scuola.

Fuori è una bellissima giornata, limpida e non esageratamente calda nonstante sia il 15 settembre e il sole splenda nel cielo terso.

Mi avvio, lentamente mentre armeggio con i cavi delle cuffie attorcigliati. solo di tanto in tanto mi guardo attorno, osservando curiosamente l'enorme quantità di studenti che si è riversata fuori dalla scuola e ora ricopre il prato circostante come una grande macchia colorata.

Sydney è una città bellissima, soleggiata, sembra quasi trasmettere una sorta di allegria. Le strade sono costantemente riempite da un flusso di macchine e persone che si muovono in un caotico ordine.

Mi piacciono le città piene di vita e di movimento.

Sovrappensiero non mi accorgo di passare di fianco ad Ellen, impegnata a conversare con un gruppo di persone

“Sarah” sentendo pronunciare il mio nome mi guardo intorno, confusa. Poi la vedo mi viene incontro, la gonna corta che ondeggia pericolosamente ad ogni suo passo, e mi sento tremendamente inadeguata con la mia camicia rossa troppo grande e i semplici skinny jeans.

“Ehy” sospiro quando mi accorgo che i suoi amici la stanno seguendo nella mia direzione.

Non sono brava nelle presentazioni, ne a risultare interessante o degna di nota. Mi rassegno a dare un'impressione mediocre.

“Questa è Sarah” lei allarga il braccio per indicarmi prodigandosi in uno dei suoi sorrisi più belli. Li guardo uno ad uno tendendo la mano nella speranza che non sia troppo sudata.

“Annabelle lei è Lucy, lei Samantha, lui James e lui…” non ascolto i nomi delle due ragazze e del moro, sono troppo impegnata a guardare “lui”

“Lui è Luke” finisce poi Ellen civettuola

È alto, molto, non sorride, ed è diverso dagli altri tre, vestiti dei colori sgargianti della scuola, lui è nero; dalla testa ai piedi. Neri i jeans tagliati all’altezza delle ginocchia, nera la maglia sbrandellata e scolorita che lascia spuntare un paio di braccia toniche e due spalle larghe e definite, ma soprattutto nero l’anello di metallo che continua a muovere con i denti bianchi attraverso il buco al labbro inferiore, mi sembra quasi sentirne il rumore costante nella testa.

“Piacere” lascio la mano lungo il fianco. So che non me la stringerebbe, mi sembra una cosa naturale

Mi limito a guardare il suo viso.

Scruto i suoi occhi, iridi azzurre che sostengono il mio sguardo senza timore, mi mettono a disagio, troppo belle, troppo azzurre, non reggo più il confronto con quel colore e scivolo lentamente lungo il profilo di un naso alla francese così perfetto che dubito sia completamente vero. Accantono l’idea e finisco per perdermi a fissare l’ombra creata sul mento e sul collo da una leggera peluria incolta.

Dio quanto è bello.

Continuo a guardarlo per un periodo imbarazzante, fino a quando non si passa una mano fra i capelli di un biondo indefinito, alti, sistemati in una pettinatura disordinata. Ribelle.

A quel punto mi rendo conto di aver fatto un passo falso e abbasso la testa, arrossendo terribilmente

“Vuoi che ti accompagni a casa?” Ellen mi toglie dall’impiccio rompendo il silenzio imbarazzante che si era creato

“Si grazie” rispondo flebilmente mentre lei si avvia, congedandosi con un gesto della mano e uno dei suoi sorrisi perfetti. Io la seguo, dico un semplice “ciao” non ricordo più come si chiamano gli altri tre,

So solo come si chiama lui

"Luke"

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