Capitolo 13

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Stavo finendo di riporre gli ultimi romanzi nell'apposita sezione della biblioteca, prima di staccare il turno durante la pausa pranzo. Avrei poi continuato nel pomeriggio con i bambini.
C'ero solo io quel giorno, Kimberly era passata la mattina per poi andare da sua mamma per prendersi cura di lei... ultimamente mi raccontava stesse facendo fatica a gestire lei e una sorta di malattia degenerativa dei neuroni. Non era stato diagnosticato un vero e proprio Alzheimer perché ancora era molto lucida, ma spesso rischiava di farsi male da sola, e di non poter badare a se stessa in assenza della figlia per qualche ora. Per me non era stressante stare in compagnia di me stessa quelle due ore in più, poi Pembroke era un luogo piccolo e tranquillo, non c'era alcun tipo di affluenza e trovavo un mio equilibrio tra quel silenzio, quel profumo di carte e le copertine da spolverare. Erano momenti nei quali i miei pensieri prendevano forma nella mia testa in maniera più insistente del solito, ricordandomi quanto fosse diverso il futuro che potevo avere in Florida o quello che vedevo tramite gli occhi dei miei genitori. Senz'altro sentivo di averli delusi, ma in qualche contorno modo percepivo fosse necessario quel lavoro, quella quotidianità, quel senso di appartenenza che spesso mancava. In quella biblioteca c'era il mio mondo: ci passavo molte più ore che a casa quasi e trovavo rifugio nei lavoretti, seppur ripetivi, quotidiani. Aspettavo anche con ansia i bambini perché desideravo poterli aiutare in ogni modo possibile, soprattutto Lewis.
Sospirai, dirigendomi verso la giacca da indossare e la borsa in pelle con la tracolla. Sarei tornata a casa come tutti i giorni, scaldando al microonde qualcosa cucinato la sera prima o qualcosa comprato già precotto. Succedeva spesso che andassi al bar all'angolo, ma desideravo starmene sotto al mio tetto, tra le quattro mura di un appartamento poco lontano da lì. Richiusi la porta dietro di me, girando la chiave nella serratura, con il cartello che indicava la temporanea chiusura.
Distrattamente buttai le chiavi nella borsa, stringendo poi la giacca attorno al corpo, seppur fosse molto più larga della mia taglia, attorcigliando la sciarpa attorno al collo.
Per un momento pensai di essermi sbagliata, ma non fu così.
Appena mi incamminai lungo il marciapiede, un ragazzo si alzò da una delle tante panchine che costeggiavano quella stradina, buttando il mozzicone di sigaretta ai suoi piedi. Fu un istante, e mi ritrovai davanti Joshua. Erano passati solo due giorni dall'ultima volta che l'avevo incontrato con Carl, durante la passeggiata con il signor Reynolds. Di solito passava molto più tempo, eppure abitavamo in un luogo così piccolo.
La confusione probabilmente si fece largo sul mio viso: la sua presenza improvvisa mi aveva destabilizzata. Non capivo in realtà come potesse essere lì, non era mai venuto fuori il mio lavoro come argomento di quelle effimere, brevi ed intense conversazioni avute con lui.
«Ciao Camille.»
Mi domandai da quanto fosse seduto su quella panchina.
Con passo felpato si era ritrovato di fronte a me, d'improvviso, ma sempre con quella riservatezza curiosa, come se fosse passato di lì accidentalmente.
«Joshua... ciao.» quasi faticavo a dire il suo nome, le volte che lo vedevo mi risuonava più in testa che altro e, perciò, dargli colore e suono con la mia voce faceva tutt'altro effetto.
«Mi son permesso di venirti a prendere per mangiare qualcosa. Ero per strada» si limitò a dire, voltando lo sguardo altrove senza guardarmi. Le mani nella tasca del giubbotto scuro e la mascella in tensione dicevano molto su come si potesse sentire in quel momento.
Pembroke era piccola in effetti, poteva avermi benissimo vista andare in biblioteca, ma volevo comunque sapere come fosse così sicuro di potermi trovare lì. In quel momento, lasciai correre.
«Pensavo di andare a casa, in verità...» avendo un'ora e mezza circa, avrei dovuto sbrigarmi però. Non lo pensavo davvero così, una piccola parte di me desiderava passare un po' di tempo anche con lui, volevo conoscerlo di più, quei pochi momenti che avevo condiviso con lui non erano bastati.
«Penso invece tu possa fare un'eccezione» sorrise leggermente, alzando un angolo della bocca in un piccolo sogghigno divertito. Continuava a tenere serrata la mascella, a girovagare ovunque tranne che sui miei occhi.
Gli avrei voluto chiedere di guardarmi, ma forse sarei stata più imbarazzata io.
Diede un calcetto ad una pietrolina, distraendosi.
Il suono flebile di un tuono si udì in lontananza. In quel momento Joshua mi osservò da sotto le ciglia scure, come se volesse studiarmi o parlarmi attraverso quei cromatismi. Spesso mi dimenticavo che esistesse una bocca per poter parlare, lui non ne aveva necessità.
Sospirai, abbandonando il progetto di rinchiudermi nel mio appartamento, per passare il pranzo in compagnia di qualcuno che non avesse la voce della radio.
«D'accordo.» annuii, cominciando a camminare. Lui al mio fianco mi guardò di sottecchi, percepivo quella pesante attenzione su di me, come se l'avermi convinta avesse più valore di ciò che ne attribuivo io.
Mi voltai sorridendogli, e lui si apprestò velocemente a girarsi, schiarendosi la gola continuando a camminare.

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