Capitolo 16

1.9K 97 31
                                    

Se c'era una cosa che in me non era cambiata, era la paura di conoscere per davvero qualcuno. Anche la Camille della Florida era restia ad approfondire i rapporti, lasciavo che rimanessero sempre in superficie, o comunque ad una giusta distanza da un cuore giovane. Pur crescendo, quel cuore rimaneva piccolo, immaturo, ingenuo; soffrivo perché non ero in grado di ricucire le ferite che lasciavano le persone, persone che in questa vita vanno e vengono. Quel mio cuore tanto si affezionava agli altri che, nel momento cruciale, non riusciva ad essere obiettivo, a rendersi conto dell'evidenza, a separare i sentimenti dalla realtà, finendo per farsi male non una, ma ripetute volte. Non c'entrava che fosse un ragazzo o degli amici... davo tanto di me e in cambio ricevevo poco. Dopo l'incidente mi chiusi totalmente: forse era l'inconsapevolezza dell'essere più fragile, più esposta, che mi portava ad esser così, o forse l'idea che tanto nessuno avrebbe più voluto avvicinarsi realmente.
Joshua mi stava dicendo esattamente il contrario, senza chiederlo. Quasi sembrava pretenderlo, ma in quella pretesa c'era dolcezza, c'era bellezza.
Anche io desidero conoscerti, ma non trovai il coraggio di dirglielo.
«Non so se può valerne la pena.» risposi irrigidendomi un po'.
Cercavo di nuovo di difendermi da qualcosa, ma ero stata io a volerlo vedere. La scorsa notte ero stata io a scrivergli... ma la notte mi capitava di ritrovarmi ad esser sempre vulnerabile, come spoglia di tutto ciò che il giorno mi lasciava addosso.
«Lascia che lo dica io se ne vale la pena o no» mormorò prontamente, guardando dritto davanti a se. Serrò la mascella duramente, schiarendosi la gola un poco.
Sembrava infastidirlo quel mio atteggiamento, quel mettere le mani avanti in caso di caduta.
Potevi farmi cadere?
Il cielo intanto divenne scuro velocemente, lasciando che il sole si nascondesse all'orizzonte. L'acqua del lago si muoveva lentamente, producendo un eco tutt'attorno che mi rilassava, nonostante aver quel ragazzo accanto mi scombussolasse dentro.
Rimasi in silenzio, mordendomi l'interno guancia come una bambina in balia di un'infantile ansia, animata da un subbuglio nelle membra che mi ricordava quanto diventassi piccola al suo fianco.
Le nostre giacche si sfioravano, quando avrei voluto fosse pelle a toccarsi, scambiandosi calore ed energia.
«Mi sono trasferito a Pembroke circa un anno e mezzo fa, ormai. Avevo bisogno di cambiare aria; Chepstow, lì al confine con l'Inghilterra, può diventare davvero un luogo nel quale soffocare.» per tutto il tempo alternò lo sguardo dalle sue mani intersecate tra loro, con le nocche quasi bianche per quanto le stringeva, e il pelo tranquillo dell'acqua. Qualcosa si agitava in lui, seppur da fuori tutto pareva silenzioso.
Pensai avesse deciso di parlare per primo così da mettermi a mio agio, in caso avessi voluto dire qualcosa.
«Lavoravo all'epoca in un pub, la sera tornavo distrutto ma disegnavo; disegnavo sempre. Persi poi quel lavoro perché il capo era pieno di debiti e dovette chiudere, fallendo. Inoltre era un periodo non facile... di quelli in cui fatichi a trovare una via d'uscita. L'annuncio di lavoro di Carl è stata la via di fuga, per quanto ormai non appartenessi più a quella cittadina.»
Perché non le appartenevi più? Da cosa scappavi?
«Sono scappata anche io, se così si può dire.» approfittai di quel suo discorso lasciato aleggiare nell'aria tra di noi, per portare la conversazione anche un po' su di me. Capii che non era intenzionato, per il momento, a dirmi altro sul suo passato, su cosa si fosse lasciato alle spalle. Sembrava ancora forte però la presenza, i suoi occhi si erano incupiti, scuriti, divenendo più opachi, lontani. Lo guardavo di sfuggita, di profilo, ma quelle iridi parlavano tantissimo, quando tacevano si scorgeva bene la differenza, il loro esser così chiaramente mutevoli.
«... per colpa sua.» feci un cenno con il mento in direzione della gamba tesa davanti a me. Incrociai le braccia al petto, per poi poggiarle sul ginocchio piegato della gamba sana. Sospirai, incerta su dove lasciare lo sguardo irrequieto.
Sentii potenti i suoi occhi su di me e per questo mi voltai, ma mi nascosi dietro un sorriso imbarazzato, schioccando la lingua.
«Come hai potuto vedere, lavoro alla biblioteca qui, e aiuto i bambini nel doposcuola per i compiti. Non il futuro che avrei immaginato, certo. Purtroppo non disegnavo come te, non ho mai avuto grande passione per i bimbi, ma... be', nei miei limiti, Pembroke aveva questo da offrire due anni fa.»
C'era irritazione nel mio tono di voce, me ne accorsi quando finii di parlare. C'era asprezza, rabbia per il mio sentirmi incapace di portare a termine qualcosa, di approfittare delle possibilità che dava la vita e andarne fiera.
Certo, quando ero con loro, nonostante qualcuno fosse difficile da trattare, mi sentivo stranamente bene. Mi aprivo un piccolo varco nel loro mondo e impiegavo tutta me stessa per capirli, aiutarli, renderli in un certo senso consapevoli e migliori di me. Forse loro erano quella via di fuga che mi portava lontana da certi pensieri, da quell'ossessione di perfezione irraggiungibile che era arma letale per me, oppure tentavo di dimenticarmi quale Camille lasciavo indietro di un passo ogni giorno che passava.
«Parli del futuro come qualcosa di prevedibile.» mi disse, scoccandomi una potente occhiata. C'era un pizzico di rimprovero nel suo tono di voce, come se volesse correggere quel mio ostinarsi a dover essere qualcuno, qualcuno meglio di com'ero, senza rendersi conto che ciò che aveva era tanto, abbastanza per il momento. Cercava di farmi apprezzare le cose che, con diffidenza e freddezza, guardavo da lontano seppur appartenessero alla mia vita.
«Prima dell'incidente, l'avevo in mano il futuro. L'avrei modellato, l'avrei fatto su misura... l'avrei inseguito come fosse costituito di tanti desideri.» gli confessai. Cercai di aprire una piccola fessura del passato per fargli comprendere quanto la ragazza che aveva al fianco, sulle sponde di quel lago, avesse poco a che fare con la Camille che proveniva dagli Stati Uniti.
Notai che affondò le mani nelle tasche della giacca alla ricerca di una sigaretta, per poi scavare nei jeans per l'accendino. Mi piacevano quei movimenti che, seppur paressero automatici, avevano una grande eleganza in se. Portò alla bocca la sigaretta, incastonata perfettamente tra le due labbra ben definite, verso l'angolo, un po' inclinata, per poi accenderla cautamente imprigionando la fiamma nella mano per far sì che cominciasse a bruciare. Seguii con gli occhi ogni suo movimento, come rapita, in attesa anche di ciò che mi avrebbe detto. Forse lo fece per prendere tempo e riflettere su cosa dirmi, oppure per lasciarmi un attimo nell'oblio e recuperarmi subito dopo.
Aspirò un po' del fumo, lo trattenne nei polmoni e poi ne rilasciò una parte, girando il volto così che non mi finisse addosso. Apprezzai quel piccolo gesto, banale, ma pensato.
«Non mi da fastidio, tranquillo.» seppur facessi molto sport al tempo e non avessi mai fumato neanche una sigaretta, me ne concedevo qualcuna in quegli ultimi due anni quando la testa era colma di pensieri opprimenti, desiderando solo staccare un attimo la spina e perdermi in quei cinque minuti prima che si riducessero in mozziconi. Osservavo la cenere, quell'oggetto bruciare e sparire piano piano, cogliendolo in tutta la sua fragilità e nel suo essere effimero.
«Ne vuoi una?» mi chiese, notando il mio sguardo insistente.
«Questa volta passo» risposi, e mi obbligai anche a distrarmi, posando l'attenzione da un'altra parte, invece di inseguire i suoi occhi così ambigui, misteriosi, accattivanti e pieni di storie.
«Riguardo a quel che mi hai detto... forse ti premeva di più fare su misura il tuo futuro, piuttosto che vivere il tuo presente.» cercò di dirmi, mostrando come la mia storia fosse totalmente diversa per lui, sulle sue labbra, nella sua testa.
«Ora nessuno dei due temo.» un sorriso amaro si fece strada sul mio volto senza che potessi pensare due volte a fermarlo o a mascherarlo. Ero così delusa, stanca e triste di quell'esistenza che mi prendevo in giro da sola, che mi ridevo in faccia. Eppure ero lì, accontentandomi di quel che mi circondava senza chiedere altro. Era abbastanza per quella Camille.
Lasciò la sigaretta tra le due dita, quasi se la dimenticò lì mentre ardeva potente, combattendo contro il venticello che cercava di farla spegnere. Forse ero come quella fiammella, quella scintilla che, per quanto lottasse per ardere, qualcosa la spegneva e la consumava ogni giorno di più. Forse non me ne accorgevo, o non volevo rendermene conto.
Mi guardava senza filtri, senza nasconderlo, come rapito anche lui dai miei occhi, per quanto banali potevano essere. Pensai si fosse incantato a pensare alla crudeltà di quelle mie parole, alla facilità con cui le avevo dette, la convinzione con la quale le avevo sputate fuori.
Allungai una mano per togliergli la sigaretta tra le dita, prima che si consumasse del tutto e lo bruciasse. Forse era un modo per distrarmi, per toccarlo o per distrarre lui.
Mi seguì con lo sguardo, finché non si accorse perché mi fossi avvicinata così repentinamente al suo viso. Gliela tolsi e la spensi nella terra umida, per poi buttarla nella tasca in attesa di un cestino. Non mi staccò gli occhi di dosso nemmeno per un secondo. Quando finì, sembrò riprendere a respirare. Il punto in cui avevo sfiorato la sua mano bruciava, come se mi avesse stretta a se, o macchiata d'inchiostro con le sue nocche scure e dipinte.
Deglutii a fatica, ricomponendomi, cercando di non far caso a un brivido che mi percorse la spina dorsale, riscuotendomi da dentro, dal profondo.
Pareva che nessuno dei due avesse più fiato per parlare, o facesse difficoltà a scegliere parole adatte per comporre una frase di senso compiuto.
«Perché mi guardi in questo modo?» mi chiese, tendendo la mascella, prendendo un lungo respiro, senza smettere di studiarmi. Posò quelle iridi sulle mie labbra, sul mio mento, sui miei zigomi alti, negli angoli dei miei occhi, perdendosi infine nei ciuffi scoordinati dei miei capelli. Pareva alla ricerca di qualcosa, ma non penso trovò molto.
C'era poca luce attorno a noi, se non per i lampioni lungo la passeggiata alle nostre spalle, e forse proprio per quello sembrava fossimo più coraggiosi, più pronti a guardarci negli occhi. Notai come sorresse il mio sguardo per più di quei soliti secondi dopo i quali scappava sempre da me, dandomi la schiena o voltando il viso da un'altra parte.
Avrei voluto chiedergli: in quale modo? Ma tutta la mia audacia era sparita, spazzata via dai nostri respiri strozzati.
«Finalmente mi lasci guardarti negli occhi.» asserii decisa. Era la verità, lo sapeva anche lui.
«Cosa intendi?» pareva allontanarsi di nuovo, lasciando un vuoto tra noi. Distolse lo sguardo da me, togliendo l'attenzione dal mio volto sul quale sembrava essersi fermato davvero per troppo. Era tornato serio, anche se quel cipiglio  pensieroso non aveva mai lasciato il suo viso da quando eravamo lì seduti.
«Non avevo mai visto due colori degli occhi così diversi, così opposti e in contrasto l'uno con l'altro.» mi sorpresi di come stessi riuscendo a parlargli senza sentire un groppo in gola di imbarazzo e ansia. Ormai distinguevo più difficilmente l'iride azzurra da quella castana, la sera si tramutava in una prima notte fresca e ventosa. A breve ci saremmo alzati per tornare indietro, cominciava a far freddo.
«Eterocromia, Camille.» rispose, con un piccolo ghigno all'angolo della bocca. Una piccola fossetta si formò in quel punto, piccola ma delicata, dolce, in netto contrasto con i tratti rigidi del suo volto, della mascella ben definita e del naso appuntito e proporzionato. Quel suo rimarcare il nome di quella particolarità che gli apparteneva, sembrava un modo per disincantare, abbruttire le mie parole che avevano dipinto l'imperfezione in qualcosa di unico e bello; pareva infastidirlo quella mia ricerca dettagliata di parole che pronunciai senza nascondermi molto, senza vergogna.
Cercai di giocare con una ciocca di capelli per mascherare un sorrisetto divertito, ma mi vide comunque. Quasi non riuscii a trovare spiegazione di come fossimo passati da discorsi seri a scherzare su come fossi poco informata sul nome dei suoi occhi. Mi avevano rapita subito in quello studio di tatuaggi.
Per il momento lasciò cadere quell'argomento, ma immaginavo fosse per lui motivo di imbarazzo: l'avevo notato da come sfuggisse selvaggio dall'attenzione che riservavo a quelle iridi.
Sono bellissime, avrei voluto dirgli in tutta onestà. Non lo feci, per il momento.

Hai finito le parti pubblicate.

⏰ Ultimo aggiornamento: Aug 10, 2021 ⏰

Aggiungi questa storia alla tua Biblioteca per ricevere una notifica quando verrà pubblicata la prossima parte!

Chi ha tempo per vivereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora